Sunday, June 27, 2010

AVATAR VIII

VIII


Il conte aprì gli occhi e volse intorno uno sguardo indagatore. Vide una camera da letto confortevole ma semplice; un tappeto ocellato, che imitava la pelle del leopardo, copriva il pavimento; davanti alle finestre e alle porte erano appesi tendaggi che Jean aveva leggermente aperto; le pareti erano tappezzate di una carta vellutata verde che simulava il tessuto. Sul caminetto di marmo bianco venato di azzurro figuravano una pendola, costituita da un blocco di marmo nero, con il quadrante di platino sormontato da una statuetta di argento Brunito della Diana di Gabès, riprodotta da Barbedienne, e due coppe antiche anche esse d'argento. Gli unici ornamenti della stanza, un po' triste e severa, erano lo specchio veneziano dove il giorno prima il conte aveva scoperto di non avere più la sua solita faccia, e il ritratto di una donna anziana, opera del Flandrin, che probabilmente rappresentava la madre di Octave. L'arredamento, comodo, ma certamente non sontuoso come quello della villa Labinski, era costituito da un divano, una poltrona Voltaire accanto al caminetto, un tavolo con dei cassetti, coperto di carte e di libri.


«Il signore si alza?»; chiese Jean con quel tono riguardoso che aveva assunto durante la malattia di Octave, mentre porgeva al conte la camicia colorata, i pantaloni di flanella con la staffa e la gandura algerina ossia gli abiti da mattino del suo padrone. Benché il conte fosse riluttante all'idea di indossare gli abiti di un estraneo, per non restare nudo dovette accettare quelli che gli proponeva Jean dopo che ebbe posato i piedi sulla morbida pelle nera che serviva da scendiletto.Appena fu pronto, Jean, il quale non dava assolutamente l'impressione di nutrire dubbi sull'identità del falso Octave de Saville che stava aiutando a vestirsi, gli chiese a che ora vuol fare colazione il signore?».

«Alla solita ora,» rispose il conte che aveva deciso di accettare almeno in apparenza la sua incomprensibile trasformazione per non intralciare i passi che intendeva fare al fine di recuperare la propria personalità. Jean si ritirò e Olaf-de Saville aprì le due lettere che gli erano state portate con i giornali, sperando di trovarvi qualche utile informazione. La prima conteneva amichevoli rimproveri e deplorava il fatto che una così buona relazione fosse stata interrotta senza motivo. La firma gli era sconosciuta. La seconda era del notaio di Octave che lo invitava ad andare a riscuotere con urgenza una quota di rendita scaduta da tempo o per lo meno a suggerire come investire i suoi capitali che restavano improduttivi.

«Si direbbe proprio che l'Octave de Saville di cui mio malgrado rivesto la pelle, esista realmente. Non è affatto un essere fantastico un personaggio di Achim von Arnim o di Clemens Brentano. Ha una casa, degli amici, un notaio, delle rendite da riscuotere: il suo stato civile di gentiluomo è completo. Ciò nonostante mi sembra proprio di essere il conte Olaf Labinski?».

Un'occhiata allo specchio lo convinse che nessuno avrebbe condiviso quell'opinione: alla chiara luce del giorno come a quella incerta delle candele, il riflesso era identico.



Continuando l'ispezione domiciliare, aprì i cassetti del tavolo: in uno trovò dei titoli di proprietà, due banconote da mille franchi e cinque luigi, di cui si appropriò senza scrupoli per condurre in porto la campagna che stava per iniziare. Nell'altro trovò invece un portafogli di cuoio di Russia con una chiusura dotata di un congegno segreto.

Jean si presentò per annunciare il signor Alfred Humbert, il quale entrò direttamente nella stanza con la familiarità di un vecchio amico senza aspettare che il domestico gli portasse la risposta del padrone.

«Buongiorno, Octave» disse il nuovo venuto, un bel giovane dall'aria franca e cordiale. «Che diamine fai, che ti sta succedendo, sei vivo o morto? Non ti si vede più da nessuna parte, se ti scrivono, non rispondi. Dovrei tenerti il broncio, ma in fede mia quando si tratta di affetti dimentico l'amor proprio e vengo a stringerti la mano. Che diavolo! Non si può lasciar morire di malinconia un compagno di collegio in quest'appartamento lugubre come la cella di Carlo V nel monastero di Yuste. Tu immagini di essere malato, ma in realtà ti annoi, ecco tutto. Ti aiuterò io a distrarti: ti obbligherò a venire a un allegra colazione in cui Gustave Raimbaud dà l'addio al celibato».

«No», rispose il marito di Prascovia entrando nella sua parte, «oggi sto peggio del solito; non mi sento in vena. Saprei solo rattristarvi e mettervi in imbarazzo».

«Effettivamente sei molto pallido e hai l'aria stanca: sarà per un'occasione migliore! Scappo, perché sono in ritardo di tre dozzine di ostriche e di una bottiglia di Saturne», avviandosi alla porta. «A Raimbaud dispiacerà non vederti».

Quella visita accrebbe la tristezza del conte. Jean lo prendeva per il suo padrone. Alfred per il suo amico. Ma gli restava da affrontare un'ultima prova: si aprì la porta ed entrò in camera una signora con i capelli striati di bianco che assomigliava in maniera impressionante al ritratto appeso alla parete. Si sedette sul divano e disse al conte:

«Come stai, mio povero Octave? Jean mi ha detto che ieri sera sei tornato tardi e in uno stato di debolezza allarmante. Riguardati, figliolo caro, perché tu sai quanto ti voglia bene nonostante il dolore che mi dà la tua inesplicabile tristezza, della quale non hai mai voluto confidarmi il motivo».

«Non c'è da preoccuparsi, madre mia. Non è niente di grave», rispose Olaf-de Saville. «Oggi mi sento molto meglio».

Rassicurata, la signora de Saville si alzò e uscì, ben sapendo come il figlio si infastidisse quando veniva disturbato troppo a lungo nella sua solitudine.

«Ora sono definitivamente Octave de Saville» esclamò il conte quando l'anziana signora se ne fu andata. «Sua madre mi riconosce e non intuisce che sotto le sembianze del figlio si nasconde l'anima di un estraneo. Forse ormai sono murato per sempre in questo involucro. Che strana prigione per uno spirito il corpo di un altro! È duro però rinunciare ad essere il conte Olaf Labinski, perdere titolo, moglie, ricchezze, e vedersi ridotto a una misera esistenza borghese. Oh! Ma io la strapperò e ne verrò fuori da questa camicia di Nesso che si è attaccata al mio io, e la renderò a brandelli al suo vero possessore. Se tornassi a casa mia? No! Susciterei uno scandalo inutile e il portiere mi butterebbe fuori: ho perso ogni vigore in questa vestaglia da malato!

Coraggio, mettiamoci a cercare, perché devo farmi un'idea della vita di questo Octave de Saville che adesso sono io». Cercò quindi di aprire il portafogli. Toccata casualmente, la molla scattò e dagli scomparti di pelle il conte tirò fuori dapprima diversi fogli coperti da una scrittura fitta e sottile, poi una carta velina sulla quale una mano poco abile, ma fedele, aveva disegnato con la memoria del cuore e una somiglianza di cui non sono sempre capaci i grandi artisti, un ritratto a matita della contessa Prascovia Labinska, riconoscibilissima a prima vista.



Davanti a quella scoperta il conte rimase stupefatto. Alla sorpresa seguì un furente accesso di gelosia. Come mai il ritratto della contessa si trovava nel portacarte segreto di quel giovane sconosciuto? Da dove veniva? Chi l'aveva fatto? Chi gliel'aveva dato? Quella Prascovia, così religiosamente adorata sarebbe scesa dal suo cielo d'amore per un volgare intrigo? Per quale infernale derisione, lui il marito si trovava incarnato nel corpo dell'amante di quella donna, fino allora creduta così pura? Dopo esserne stato lo sposo, ne sarebbe diventato lo spasimante! Ironica metamorfosi, capovolgimento di situazione da farti impazzire; si sarebbe potuto ingannare da solo, essere al tempo stesso Clitandro e George Dandin!

Tutte queste idee gli ronzavano tumultuosamente in testa; sentiva che stava per perdere la ragione e per ritrovare una certa calma fece un estremo sforzo di volontà. Senza ascoltare Jean, il quale l'avvertiva che la colazione era servita, continuò con nervosa trepidazione a esaminare il misterioso portacarte. I fogli costituivano una specie di diario psicologico, abbandonato e ripreso in diverse epoche. Eccone alcuni frammenti, divorati dal conte con ansiosa curiosità: «Mai lei mi amerà, mai, mai! Ho letto nei suoi occhi così dolci quella sentenza così crudele che Dante giudicò non vi fosse nulla di più dolorosamente appropriato da incidere sulla porta della Città dolente: "Perdete ogni speranza". Che cosa ho fatto a Dio per essere dannato da vivo? Domani, dopodomani, sempre, sarà la stessa cosa! Gli astri possono incrociare le loro orbite, le stelle in congiunzione formare nodi ma niente nella mia sorte cambierà. Con una parola ha fatto svanire il sogno, con un gesto ha spezzato l'ala alla chimera. Le favolose combinazioni delle impossibilità non mi offrono nessuna probabilità. Anche se giocassi mille volte gli stessi numeri sulla ruota della fortuna, non uscirebbero mai. Non ci sono numeri vincenti per me!».

«Ah me sventurato! So che il paradiso mi è chiuso, eppure resto stupidamente seduto sulla soglia, con le spalle appoggiate alla porta che non si aprirà, e piango in silenzio, senza singulti, senza sforzo, come se i miei occhi fossero sorgenti d'acqua viva. Non ho il coraggio di alzarmi e di addentrarmi nell'immenso deserto o nella tumultuosa Babele degli uomini».

«A volte, quando di notte non posso dormire, penso a Prascovia. Se dormo, la sogno. Com'era bella quel giorno a Firenze, nel giardino di villa Salviati! Quel vestito bianco e quei nastri neri, com'erano seducenti e funebri! Il bianco per lei, il nero per me! A volte i nastri, mossi dal vento, formavano una croce su quel fondo di un bianco splendente. Uno spirito invisibile diceva sottovoce la messa da morto del mio cuore».

«Se per un qualche inaudito sovvertimento la mia fronte dovesse cingersi della corona degli imperatori e dei califfi, se la terra dissanguasse per me le sue vene d'oro, se le miniere di diamanti di Golconda e di Bizapura mi lasciassero frugare nelle loro ganghe scintillanti, se sotto le mie dita risuonasse la lira di Byron, se i più perfetti capolavori dell'arte antica e moderna concedessero la loro bellezza, se scoprissi un modo, ebbene, che vantaggi ne avrei?».

«Da che cosa mai dipende il destino! Se avessi avuto voglia di andare a Costantinopoli, non l'avrei incontrata. Invece resto a Firenze, la vedo e muoio!».

«Mi ucciderei volentieri, ma lei respira nell'aria in cui viviamo, e forse le mie labbra avide respireranno - oh ineffabile felicità! - un lontano effluvio del suo alito profumato. E poi la mia anima colpevole potrebbe essere condannata a un pianeta d'esilio e perderei la possibilità di farmi amare da lei nell'altra vita. Essere separati anche nell'al di là, lei in paradiso io in inferno: che tremendo pensiero!».

«Perché devo amare proprio la sola donna che non mi può amare? Altre, considerate belle e per di più libere, mi sorridevano con il loro più tenero sorriso e parevano aspettarsi una dichiarazione che non riuscivo a fare. Com'è felice lui! Per quale sublime vita anteriore Dio lo ricompensa con il magnifico dono di questo amore?».

...Era inutile seguitare a leggere. Il sospetto che il ritratto di Prascovia aveva potuto risvegliare nel conte, era svanito fin dalle prime righe di quelle tristi confidenze. Capì che l'immagine diletta, mille volte ricominciata, era stata vagheggiata lontano dal modello, con l'instancabile pazienza dell'amore infelice, e che un'adorazione senza speranza si inginocchiava davanti alla madonna di una mistica cappellina.

«Ma se quell'Octave avesse fatto un patto con il diavolo per sottrarmi il corpo e carpire sotto i miei sembianti l'amore di Prascovia!».



Il conte, per quanto stranamente turbato, finì per lasciar cadere una simile ipotesi, troppo inverosimile nel XIX secolo.

Sorridendo perfino della propria credulità consumò la colazione ormai fredda che Jean gli aveva servito. Poi si vestì e chiese la carrozza. Quando fu pronta, si fece portare dal dottor Balthazar Cherbonneau. Attraversò quelle sale dove il giorno prima era entrato chiamandosi ancora conte Olaf Labinski e da dove era uscito salutato da tutti come Octave de Saville.

Il dottore era seduto come al solito sul divano dell'ultima stanza tenendosi un piede in mano, e pareva immerso in una profonda meditazione. Sentendo il passo del conte, sollevò il capo.

«Ah! È lei, mio caro Octave. Stavo per passare da casa sua, ma è buon segno quando il malato viene a trovare il medico».

«Sempre Octave!», Esclamò il conte. «Credo che impazzirò di rabbia!» Poi, incrociando le braccia, si piazzò davanti al conte fissandolo con uno sguardo terribile:

«Lei sa bene, signor Balthazar Cherbonneau, che io non sono Octave, bensì il conte Olaf Labinski, dal momento che ieri sera, proprio qui, lei ha rubato la mia pelle servendosi delle sue esotiche stregonerie».

A quelle parole il dottore si mise a ridere fragorosamente, si rovesciò sui cuscini e si tenne il fianco con le mani per trattenere la sua convulsa allegria.


«Moderi questa gaiezza fuori luogo della quale potrebbe pentirsi, dottore. Sto parlando seriamente».

«Pazienza! Pazienza! Ciò dimostra che l'insensibilità e l'ipocondria per cui la curavo, ora si stanno trasformando in demenza. Dovremo cambiare cura, ecco tutto».


Non so che cosa mi trattenga, dottore del diavolo, dallo strangolarla con le mie stesse mani», gridò il conte avanzando verso Cherbonneau.

Il dottore sorrise della minaccia del conte e lo toccò con la punta di una bacchetta d'acciaio. Olaf-de Saville ne ebbe una scossa terrible e credette di avere un braccio rotto.

«Oh! Noi sappiamo come domare i malati quando ricalcitrano», disse il dottore fissandolo con quello sguardo gelido come una doccia, che rende docili i pazzi e fa accucciare i leoni. «Torni a casa, faccia un bagno: la sovreccitazione si calmerà».

Stordito dalla scossa elettrica, Octave-de Saville uscì dalla casa del dottor Cherbonneau più incerto e più turbato che mai. Si fece condurre a Passy, dal dottor B***, per un consulto.

«Sono in preda a una strana allucinazione», disse al celebre medico. «Quando mi guardo in uno specchio, il mio viso non mi appare con i soliti tratti; la forma degli oggetti che mi circondano è cambiata; non riconosco né le pareti né i mobili della mia camera; mi sembra di essere una persona che non sono io».

«In che modo si vede?»; chiese il medico. «L'errore può dipendere dagli occhi o dal cervello».

«Mi vedo con i capelli neri, gli occhi azzurro scuro, un viso pallido incorniciato dalla barba».

«I dati di un passaporto non potrebbero essere più esatti: lei non soffre né di allucinazione mentale né di disturbi della vista. È infatti esattamente come dice».

«Ma no! Io ho in realtà i capelli biondi, gli occhi neri, un incarnato scuro e baffi sottili, all'ungherese».

In tal caso», rispose il medico, «ci troviamo di fronte a una leggera alterazione delle facoltà intellettive».

«Eppure, dottore, non sono affatto pazzo».

«Non c'è dubbio. Solo le persone dotate di senno vengono da me spontaneamente. Un po' di stanchezza, qualche eccesso nello studio o nei piaceri avranno provocato il suo disturbo. Lei si sbaglia: la visione corrisponde alla realtà, è l'idea ad essere chimerica. Invece di essere un biondo che si vede bruno, lei è un bruno che si crede biondo».


«Eppure sono sicuro di essere il conte Olaf Labinski, mentre da ieri tutti mi chiamano Octave de Saville».

«È appunto come dicevo io», replicò il dottore. «Lei è il signor de Saville e crede di essere il conte Labinski, che ricordo di aver visto e che effettivamente è biondo. Ciò spiega perfettamente perché lei si veda un viso diverso nello specchio. Quel viso che è il suo, non corrisponde alla sua idea personale e la sorprende. Rifletta un po': tutti la chiamano Octave de Saville e quindi non condividono il suo parere. Venga qui a passare una quindicina di giorni: i bagni, il riposo, le passeggiate tra gli alberi faranno svanire la sua incresciosa impressione».

Il conte chinò il capo e promise di tornare. Non sapeva più a che cosa credere. Andò di nuovo nell'appartamento della rue Saint-Lazare, e per caso vide sul tavolo il biglietto d'invito della contessa Labinska, che Octave aveva mostrato al signor Cherbonneau.

«Con questo talismano», esclamò, «domani la potrò vedere!».

(VIII - Continua)

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Tuesday, June 22, 2010

AVATAR VII

VII

Rimasto solo con il corpo di Octave de Saville, abitato dall'anima del conte Olaf Labinski, il dottor Cherbonneau si accinse a restituire quella forma inerte alla vita normale. Dopo che ebbe fatto qualche gesto, Olaf de Saville (ci sia concesso di associare i due nomi per indicare un personaggio doppio) emerse come un fantasma dal limbo del sonno profondo, o meglio dalla catalessi che lo inchiodava rigido e immobile in un angolo del divano.

Si alzò con un movimento automatico, non ancora guidato dalla volontà, e in preda a una vertigine non del tutto scomparsa. Gli oggetti gli vacillavano intorno, le incarnazioni di Visnù danzavano la sarabanda lungo le pareti, il dottor Cherbonneau gli appariva con le sembianze del sannyasi di Elefanta, agitando le braccia come ali d'uccello e roteando le pupille azzurre dentro orbite di rughe scure, simili a cerchi di occhiali. Gli strani spettacoli ai quali aveva assistito prima di cadere nell'annientamento magnetico continuavano ad agire sul suo raziocinio e solo lentamente ritrovava il senso della realtà: era come un dormiente che risvegliato bruscamente da un incubo prenda ancora per fantasmi le vaghe forme umane degli abiti sparsi sulle sedie, e per fiammeggianti occhi di ciclope le coppe di rame delle tende semplicemente illuminate dal riflesso del lucignolo.

A poco a poco quella fantasmagoria svanì e tutto riprese l'aspetto naturale. Il signor Baltahazar Cherbonneau non fu più un penitente indiano, ma un semplice dottore in medicina che rivolgeva al proprio cliente un sorriso banalmente benevolo.



«Il signor conte è soddisfatto degli esperimenti che ho avuto l'onore di compiere davanti ai suoi occhi?», gli stava dicendo con un tono di ossequiosa umiltà in cui era possibile individuare una leggera sfumatura di ironia. «Oso sperare che non debba rammaricarsi della sua serata e che se ne andrà convinto che tutto quello che si racconta sul magnetismo non è né fola né ciarlataneria, come sostiene la scienza ufficiale».

Olaf-de Saville rispose con un cenno di assenso e uscì dall'appartamento accompagnato dal dottor Cherbonneau, che ad ogni porta gli faceva dei profondi inchini.

Il brougham venne avanti rasentando il marciapiede e l'anima del marito della contessa Labinska vi salì con il corpo di Octave senza rendersi ben conto che non si trattava né del suo domestico né della sua carrozza.

Il cocchiere gli chiese dove volesse andare.

«A casa», rispose Olaf-de Saville, confusamente stupito di non riconoscere la voce del servitore che di solito gli rivolgeva quella domanda con un forte accento ungherese.

Il brougham era tappezzato di damasco verde scuro, mentre la sua carrozza era imbottita di raso color oro e il conte si stupiva di quella differenza, pur accettandola come si fa in sogno quando gli oggetti familiari si presentano sotto un aspetto del tutto diverso, ma pur sempre riconoscibile. Si sentiva anche più piccolo del solito; inoltre gli pareva di essere arrivato con un vestito elegante, o senza ricordare di essersi cambiato si vedeva indosso un leggero soprabito estivo che non aveva mai fatto parte del suo guardaroba. Si sentiva stranamente a disagio e i suoi pensieri, così lucidi al mattino, erano penosamente confusi. Attribuendo quell'insolito stato agli strani scenari della serata, smise di pensarci e appoggiando la testa a un angolo della carrozza si abbandonò a un instabile fantasticare, a una vaga sonnolenza tra veglia e sogno.

Tornò in sé quando il cavallo si fermò bruscamente e la voce del cocchiere gridò: «La porta!». Abbassò il vetro, mise fuori la testa e alla luce di un lampione vide una strada sconosciuta e una casa che non era la sua.

«Dove diavolo mi hai portato, animale?» esclamò. «Ti sembra forse di essere in Faubourg Saint-Honoré, alla villa Labinski?»

Mi scusi, signore, non avevo capito», borbottò il cocchiere facendo prendere al cavallo la direzione indicata.

Durante il tragitto, il conte, con il suo nuovo aspetto, si fece diverse domande alle quali non era in grado di rispondere. Come mai la sua carrozza se n'era andata senza di lui, dal momento che aveva dato ordine di aspettarlo? E come mai lui si trovava nella carrozza di un altro? Suppose che un lieve rialzo febbrile alterasse le sue percezioni, oppure che il medico taumaturgo, per impressionare più fortemente la sua credulità, gli avesse fatto respirare durante il sonno qualche flacone di hascisc o di altra droga allucinogena, i cui effetti si sarebbero dissipati con una notte di riposo.

La carrozza arrivò alla villa Labinski: invitato ad aprire la porta il portiere rifiutò dicendo che non era sera di ricevimento, che il signore era tornato da più di un'ora e la signora si era ritirata nei suoi appartamenti.

«Birbante, sei ubriaco o pazzo?», disse Olaf-de Saville respingendo il colosso che si ergeva gigantesco sulla soglia del portone socchiuso come una di quelle statue di bronzo che nelle fiabe arabe vietano ai cavalieri erranti l'accesso dei castelli incantati.



«Ubriaco o pazzo sarà lei, mio caro signore», ribatté il portiere che da scarlatto com'era di solito si era fatto blu di collera.

«Miserabile!», ruggì Olaf-de Saville, "se non volessi trascendere..."».

«Chiuda la bocca se non vuole che la faccia a pezzi sulle mie ginocchia e la butti sul marciapiede», replicò il gigante aprendo una mano più grande e più grossa della mano di gesso esposta nella vetrina del guantaio della rue Richelieu. «È meglio non fare il prepotente con me, ragazzino, solo perché hai bevuto un po' di champagne di troppo».

Olaf-de Saville, esasperato spinse il portiere con una tale rudezza che riuscì a entrare nell'androne. Al rumore dell'alterco accorsero alcuni valletti ancora in piedi.

«Ti caccio via, bestione, brigante, scellerato! Devi andartene da qui questa notte stessa. Vattene via o ti ammazzerò come un cane arrabbiato. Non mi costringere a versare l'ignobile sangue di un lacchè».

E il conte, spossessato del suo corpo, si slanciò con gli occhi iniettati di sangue, la schiuma alla bocca, i pugni contratti, verso l'enorme portiere. Questi, prendendo tutte e due le mani dell'aggressore in una delle sue, quasi le stritolò nella morsa delle dita tozze, carnose e nodose come quelle di un aguzzino medioevale.

«Andiamo, via, un po' di calma», diceva il gigante, in fin dei conti un bonaccione, che non aveva più nulla da temere dal suo avversario e lo scuoteva solo un po' per tenerlo a bada. «Ma le sembra una cosa di buon senso che uno si riduca in uno stato simile quando porta vestiti da signore, e venga a far schiamazzi notturni nelle case rispettabili? Bisogna aver riguardi con il vino! Chissà com'era forte quello che l'ha ubriacata così! Per questo non l'ammazzo! Mi contenterò di depositarla delicatamente per la strada dove la ronda la raccoglierà, se non la pianta di far putiferio. Stare un po' al fresco le chiarirà le idee».

«Infami!», gridò Olaf-de Saville rivolgendosi ai valletti. «Voi lasciate che questa immonda canaglia insulti così il vostro padrone, il nobile conte Labinski!»

A quel nome il servitorame schiamazzò in coro fragorosamente. Uno scoppio di risa enorme, omerico, convulso, scosse tutti quei petti gallonati: «Il signorino crede di essere il conte Labinski Ah! ah! ih! ih! Questa sì che è buona!».

Un sudore gelido bagnò le tempie di Olaf-de Saville. Un pensiero lancinante gli traversò il cervello come una lama d'acciaio e si sentì come paralizzare. Smarra gli aveva messo un ginocchio sul petto oppure era quella la vita reale?. La sua ragione era sprofondata nell'oceano senza fondo del magnetismo oppure era vittima di qualche diabolica macchinazione? Nessuno dei suoi servitori sempre così tremanti, così sottomessi, così umili davanti a lui lo riconosceva. Gli avevano forse cambiato il corpo come gli abiti e la carrozza?".

Per convincersi di non essere il conte Labinski» disse uno dei più insolenti della conventicola, «guardi laggiù, ecco proprio lui in persona che scende la scalinata, richiamato dallo schiamazzo della sua scenata».

Sempre prigioniero del portiere, il conte si girò verso il fondo del cortile e vide in piedi, sotto il portico, un giovane d'aspetto snello ed elegante, viso ovale, occhi neri, naso aquilino, baffi sottili, che non era altri che lui, oppure il suo spettro modellato dal diavolo, così somigliante da trarre in inganno.



Il portiere liberò le mani che teneva prigioniere. I valletti si schierarono rispettosamente lungo il muro, con gli occhi bassi, le mani lungo il corpo, perfettamente immobili come gli icoglan all'arrivo del padiscià, rendendo a quel fantasma gli onori che rifiutavano all'autentico conte.

Il marito di Prascovia, benché intrepido come uno slavo, il che è tutto dire, provò un indicibile spavento all'avvicinarsi di quel Menecmo che, più terribile del Menecmo teatrale, si introduceva nella vita reale rendendo irriconoscibile il suo gemello.

Gli tornò in mente un'antica leggenda di famiglia che accrebbe ulteriormente il suo terrore. Ogni volta che un Labinski doveva morire, veniva avvertito dall'apparizione di un fantasma in tutto simile a lui. Fra le popolazioni nordiche, vedere il proprio doppio, sia pure in sogno, ha sempre rappresentato un presagio funesto, e quando l'intrepido guerriero del Caucaso si vide davanti il proprio io, fu colto da un invincibile superstizioso terrore: lui che avrebbe infilato il braccio nella bocca dei cannoni pronti a sparare, indietreggiò davanti a se stesso.

Octave-Labinski si avvicinò al suo vecchio corpo in cui si dibatteva, si indignava e rabbrividiva l'anima del conte e con gelida e altera cortesia gli disse: «Signore, smetta di esporsi così davanti ai servitori. Il signor conte Labinski, se vuole parlargli, riceve da mezzogiorno alle due. La signora contessa riceve il giovedì le persone che hanno avuto l'onore di esserle presentate».

Dopo questa frase proferita lentamente e calcando ogni sillaba, il falso conte si ritirò con passo tranquillo e le porte si richiusero dietro di lui.

Olaf-de Saville fu trasportato svenuto nella sua carrozza. Quando riprese i sensi era sdraiato su un letto che non assomigliava al suo, in una camera dove non ricordava di essere mai entrato. Accanto a lui c'era un domestico sconosciuto che gli teneva sollevata la testa e gli faceva respirare un flacone di etere.

«Il signore si sente meglio?», chiese Jean al conte che scambiava per il proprio padrone.

«Sì» rispose Olaf-de Saville «era solo una debolezza passeggera».

«Posso ritirarmi o è meglio che vegli, signore?».

«No, lasciami solo, ma prima di andartene accendi i lumi accanto allo specchio».

«Il signore non teme che un chiarore così forte le impedisca di dormire?».

«Assolutamente no. E poi non ho ancora sonno».

«Io non andrò a letto, e se il signore ha bisogno di qualcosa, accorrerò appena suona il campanello», lo rassicurò Jean preoccupato dal pallore e dai tratti sconvolti del conte.

Quando Jean se ne fu andato dopo aver acceso le candele, il conte si precipitò allo specchio e nella profondità del cristallo dove scintillavano tremolando le luci, vide una faccia giovane, dolce e triste, dai folti capelli neri, gli occhi di un azzurro cupo, le guance pallide, una serica barba scura, un viso che non era il suo e che lo guardava sorpreso dal fondo dello specchio.

In un primo momento si sforzò di credere che un burlone di cattivo gusto avesse inquadrato il proprio viso nella cornice incrostata di rame e madreperla dello specchio veneziano. Fece scorrere la mano sul retro, ma non sentì che il legno: non c'era nessuno.

Si tastò le mani e le sentì più magre, più lunghe, con più venature. All'anulare spiccava un grosso anello in cui era incastonata un'avventurina con uno stemma inciso: era uno scudo con un motivo di fauci alternate a strisce d'argento e una corona baronale come sigillo. Quell'anello non era mai appartenuto al conte che aveva un blasone d'oro con un'aquila che spicca il volo, nera come il becco, le zampe e gli artigli, il tutto sormontato da una corona comitale. Si frugò in tasca e trovò un piccolo portafogli con dei biglietti da visita intestati a «Octave de Saville».

La risata dei valletti alla villa Labinski, l'apparizione del suo doppio, il viso sconosciuto che si era sostituito al suo nello specchio potevano essere, a rigore, le fantasie di un cervello malato, ma quegli abiti diversi, l'anello che si sfilava dal dito erano prove materiali, tangibili, testimonianze irrefutabili. A sua insaputa si era operata in lui una completa metamorfosi; un mago di sicuro, forse un demone, lo aveva derubato del corpo, del titolo di nobiltà, del nome, di tutta la sua personalità, lasciandogli solo l'anima che però non aveva modo di manifestare.




Gli tornarono in mente le storie fantastiche di Peter Schlemihl e della Notte di San Silvestro, ma i personaggi di Lamotte-Fouqué e di Hoffmann si erano limitati a perdere la propria ombra o il proprio riflesso: anche se l'essere curiosamente privati di una proiezione che tutti possiedono poteva ispirare inquietanti sospetti, se non altro nessuno poteva negare la loro identità.



La sua condizione era ben altrimenti catastrofica: con quel corpo in cui era imprigionato non poteva pretendere al titolo di conte Labinski. Sarebbe passato agli occhi di tutti per un impudente impostore, o per lo meno per un pazzo. Perfino sua moglie non lo avrebbe riconosciuto sotto quelle apparenze menzognere. Come dimostrare la propria identità? C'erano, è vero, mille circostanze di natura privata, mille particolari segreti che solo lui aveva e che, ricordati a Prascovia, le avrebbero fatto riconoscere l'anima del marito sotto quel travestimento. Ma a che sarebbe servita quell'unica certezza, ammesso che riuscisse a farla nascere, contro l'opinione unanime? Era realmente e totalmente spossessato del proprio io.

Altro motivo d'ansia: la sua trasformazione si limitava al cambiamento esteriore della figura e del volto, oppure si era realmente trasferito nel corpo di un altro? In tal caso, che ne era stato del suo? Era stato bruciato in un pozzo di calce viva o se n'era impossessato un ladro temerario? Il doppio che aveva visto alla villa Labinski poteva essere uno spettro, una visione ma anche un essere materiale vivente, che si era introdotto nella pelle sottrattagli con diabolica abilità da quel medico con la faccia da fachiro.

Un'idea tremenda gli azzannò il cuore con denti di vipera: «Quel finto conte Labinski, che ha assunto le mie sembianze grazie al demonio, quel vampiro che ora abita nel mio palazzo al quale i miei servitori ubbidiscono a mio danno, forse a quest'ora introduce il suo piede forcuto nella camera dove sono sempre penetrato con il cuore palpitante come la prima sera, e Prascovia gli sorride forse dolcemente, e divinamente arrossendo posa la sua incantevole testa su quella spalla marchiata dall'artiglio del diavolo, credendo che io sia quella larva bugiarda, quel fantasma, quello spettro, quel repellente figlio della notte e dell'inferno. Se corressi a casa, se appiccassi il fuoco per gridare tra le fiamme a Prascovia: "Ti stanno ingannando, non è il tuo diletto Olaf colui che stringi sul cuore! Innocentemente stai commettendo una colpa abominevole, che la mia anima disperata seguiterà a ricordare quando le mani del tempo si saranno stancate di girare e rigirare la sua clessidra!"».

Ondate di fiamma salivano al cervello del conte che emetteva urla inarticolate di rabbia, si mordeva le mani, girava come una belva per la camera. La follia stava per sopraffare l'oscura coscienza di sé che ancora gli restava. Corse alla toeletta di Octave, riempì una catinella d'acqua e vi tuffò la testa che emerse fumante da quel bagno gelato.

Recuperò il sangue freddo. Si disse che erano passati i tempi della magia e della stregoneria, che solo la morte liberava l'anima dal corpo, che in piena Parigi non si poteva far comparire in quel modo un conte polacco che vantava un credito di svariati milioni presso la banca Rotschild, imparentato con le più grandi famiglie, marito molto amato di una donna alla moda, decorato dell'ordine di Sant'Andrea di prima classe, e che si trattava sicuramente di uno scherzo di cattivo gusto del signor Balthazar Cherbonneau, facilmente spiegabile come gli spauracchi dei romanzi di Anne Radcliffe.

Sentendosi a pezzi, si buttò sul letto di Octave e si addormentò di un sonno pesante, opaco, simile alla morte, che durava ancora quando Jean venne a posare sul tavolo lettere e giornali, credendo che il padrone fosse ormai sveglio.

(VII - Continua)

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Tuesday, June 15, 2010

AVATAR VI

VI


Nel silenzioso cortile della casa si sentì il rumore di una carrozza e poco dopo Octave si presentò davanti al dottore. Quando questi gli fece vedere il conte Olaf Labinski apparentemente morto, rimase stupefatto.

In un primo momento pensò a un omicidio e per un attimo rimase muto d'orrore, ma dopo aver guardato attentamente si accorse che il petto del giovane dormiente si alzava e si abbassava in un respiro quasi impercettibile.

«Ecco qui già pronto il suo travestimento», disse il dottore. «È un po' più difficile da indossare di un domino noleggiato da Babin, ma Romeo, quando sale sul balcone di Verona, non sta a pensare che potrebbe rompersi il collo. Sa che Giulietta lo aspetta lassù nella camera, avvolta nei suoi veli notturni. La contessa Labinska può ben reggere il confronto con la figlia dei Capuleti».

Octave se ne restava silenzioso, turbato da quell'insolita situazione: continuava a guardare il conte che aveva la testa leggermente riversa su un cuscino e ricordava quelle statue di cavalieri adagiate sulle tombe dei chiostri gotici con un guanciale marmoreo sotto la rigida nuca. Quella bella e nobile figura che egli stava per spossessare della sua anima, gli ispirava suo malgrado qualche rimorso.



Nel vederlo così soprappensiero il dottore pensò che Octave esitasse e le sue labbra accennarono un sorriso sprezzante, mentre gli diceva:

«Se non è deciso, posso svegliare il conte, che se ne andrà come è venuto, meravigliandosi del mio potere magnetico. Ma ci pensi bene: un'occasione del genere potrebbe non ripetersi più. Ciò nonostante, per quanto il suo amore possa suscitare il mio interesse, per quanto desideri fare un esperimento mai tentato in Europa, non le nasconderò che questo scambio di anime presenta qualche pericolo. Si batta il petto, interroghi il suo cuore. È davvero disposto a rischiare la vita giocando quest'ultima carta? L'amore è forte come la morte, dice la Bibbia».

«Sono pronto», rispose semplicemente Octave.

«Bene, giovanotto», esclamò il dottore fregandosi le mani scure e magre con straordinaria rapidità, come se avesse voluto accendere il fuoco alla maniera dei selvaggi. «Mi piace questa passione che non indietreggia davanti a nulla. Ci sono due sole cose al mondo: la passione e la volontà. Se non sarà felice non sarà certo per colpa mia. Ah, mio vecchio Brahma-Logum, ora vedrai dal cielo d Indra dove le apsara ti circondano con i loro canti voluttuosi, se ho dimenticato l'irresistibile formula che mi hai rantolato all'orecchio mentre stavi per abbandonare la tua carcassa mummificata. Parole e gesti, ricordo tutto. Al lavoro! Ora nel nostro calderone faremo uno strano intruglio come le streghe di Macbeth, ma senza gli ignobili sortilegi del nord. Si sieda davanti a me, in quella poltrona, e si abbandoni fiduciosamente al mio potere. Bene! Occhi negli occhi, mani contro le mani. Ecco l'incantesimo comincia già ad agire. La nozione di tempo e spazio si va smarrendo, la coscienza dell'io svanisce, le palpebre si abbassano. Non ricevendo più ordini dal cervello, i muscoli si rilassano, il pensiero si assopisce, tutti i delicati filamenti che collegano l'anima al corpo si sciolgono. Braham, nell'uovo d'oro dove ha sognato per diecimila anni, non era separato dalle cose esterne più di così. Saturiamolo di effluvi, inondiamolo di raggi».

Borbottando queste frasi smozzicate, il dottore seguitava senza interruzione i suoi gesti magnetici: dalle mani tese scaturivano flussi luminosi che andavano a colpire la fronte o il cuore del paziente, intorno al quale appariva a poco a poco una specie di alone fosforescente.



«Benissimo!», fece il signor Balthazar Cherbonneau plaudendo alla propria opera. «Ecco come lo voglio. Vediamo, vediamo, che cos'è che ancora sta resistendo?», esclamò dopo una breve pausa, come se attraverso il cranio di Octave vedesse l'ultimo sforzo della personalità che rifiutava di annientarsi. «Che cos'è questa idea ribelle che cacciata dalle circonvoluzioni del cervello cerca di sottrarsi alla mia influenza raggomitolandosi sulla monade primitiva, nel punto centrale della vita? Ma io la riprenderò e la domerò».

Per vincere quell'involontaria ribellione, il dottore ricaricò con maggior potenza la batteria magnetica del suo sguardo e aggiunse il pensiero in rivolta tra la base del cervelletto e l'inizio del midollo spinale, il santuario più nascosto, il tabernacolo più misterioso dell'anima. Il suo trionfo era completo.

Con maestosa solennità si preparò allora all'inaudito esperimento che stava per tentare. Indossò come un mago una veste di lino, si lavò le mani in acqua profumata, prese da diverse scatole delle polverine con cui si fece ieratici tatuaggi sulle guance e sulla fronte. Poi si cinse il braccio con il cordone dei bramini lesse due o tre sloca dei poemi sacri e non omise nessuno dei minuziosi rituali raccomandati dal sannyasi delle grotte di Elefanta.

Terminate le cerimonie, fece salire al massimo la temperatura. Ben presto l'atmosfera della sala diventò talmente infuocata che perfino le tigri della giungla sarebbero venute meno, la corteccia di fango sulla pelle rugosa dei bufali si sarebbe crettata e il largo fiore dell'aloe sarebbe sbocciato con una detonazione.

«Le due scintille del fuoco divino, che fra breve si troveranno per qualche attimo nude e spoglie del loro involucro mortale, non debbono impallidire o spegnersi nella nostra gelida aria», disse il dottore guardando il termometro che in quel momento segnava 120 gradi Fahrenheit.

Nella sua bianca veste, il dottor Balthazar Cherbonneau aveva l'aria, tra i due corpi inerti, del sommo sacerdote di una di quelle religioni sanguinarie che gettavano cadaveri umani sull'altare dei loro dei. Anche se le sue intenzioni erano sicuramente più pacifiche, faceva pensare a quel sacerdote di Vitziliputzili, il feroce idolo messicano di cui parla Heine in una sua ballata.



Si avvicinò al conte Olaf Labinski sempre immobile e pronunciò l'ineffabile sillaba che andò a ripetere subito dopo su Octave profondamente addormentato. La faccia del dottor Cherbonneau, solitamente bizzarra, aveva assunto in quel momento una singolare maestà: la grandezza del potere di cui disponeva nobilitava i suoi tratti irregolari, e se qualcuno l'avesse visto mentre compiva quei riti misteriosi con gravità sacerdotale, non avrebbe riconosciuto in lui il dottore alla Hoffmann, degno della matita di un caricaturista, ma pronto a sfidarla.

Accaddero a quel punto cose assai strane: le convulsioni dell'agonia parvero agitare simultaneamente Octave de Saville e il conte Olaf Labinski i cui visi si andavano alterando, mentre alle loro labbra saliva una leggera schiuma e la pelle assumeva un pallore mortale. Due piccoli bagliori azzurrini scintillarono allora tremolando sopra le loro teste.

A un gesto fulmineo del dottore che sembrava volesse tracciar loro la via, i due punti fosforescenti si mossero nell'aria lasciandosi dietro una scia luminosa e raggiunsero la loro nuova dimora: l'anima di Octave occupò il corpo del conte Labinski, l'anima del conte quello di Octave. L'avatar era compiuto.

Un lieve rossore sugli zigomi stava a indicare che la vita era tornata in quelle argille umane rimaste per qualche istante prive di anima e che senza i poteri del dottore sarebbero state preda dell'Angelo nero.

La gioia del trionfo faceva brillare le pupille azzurre di Cherbonneau che camminando a gran passi per la stanza andava dicendo: «Facciano altrettanto i medici più osannati, loro che sono così fieri di saper riaggiustare alla meno peggio l'orologio umano quando si guasta: Ippocrate, Galieno, Paracelso, Van Helmont, Boerhave, Tronchin, Hahnemann, Rasori. Il più modesto fachiro accovacciato sulle scale di una pagoda, ne sa mille volte più di voi! Che cosa importa un cadavere, quando si sa comandare allo spirito!».

Alla fine della sua riflessione, il dottor Balthazar Cherbonneau fece un bel po' di capriole d'esultanza e danzò come le montagne nel Sir-Hasirim del re Salomone. Poco ci mancò che picchiasse il naso impigliandosi nella veste da bramino, piccolo incidente che lo fece tornare in sé e recuperare tutto il suo sangue freddo.



«Svegliamo i nostri dormienti», disse il signor Cherbonneau dopo essersi ripulito il viso delle strisce colorate con cui l'aveva macchiato ed essersi spogliato della veste braminica. Dopo di che si mise davanti al corpo del conte Labinski abitato dall'anima di Octave e fece i gesti necessari per farlo emergere dallo stato sonnambolico, scuotendo a ogni gesto le dita cariche del fluido da cui lo andava liberando.

Dopo qualche minuto Octave Labinski (che ormai chiameremo così perché il racconto diventi più chiaro) si mise a sedere, si fregò gli occhi e volse intorno uno sguardo stupito, non ancora rischiarato dalla coscienza dell'io. Quando ebbe ritrovato la netta percezione degli oggetti, la prima cosa che vide fu la sua forma adagiata sul divano, al di fuori di lui. Si vedeva! Non riflesso in uno specchio, ma come un essere reale. Cacciò un grido, e quel grido che non risuonò con il timbro della sua voce gli provocò una sorta di spavento. Dato che lo scambio di anime era avvenuto durante il sonno magnetico, egli infatti non lo ricordava e provava uno strano malessere. Il suo pensiero, dotato di nuovi organi, era come un operaio al quale siano stati tolti gli attrezzi abituali in cambio di altri. Psiche, disorientata, sbatteva le ali inquiete contro la volta di quel cranio sconosciuto, e si perdeva nei meandri di un cervello dove rimanevano ancora tracce di idee estranee.

«Bene», disse il dottore dopo che si fu rallegrato a sufficienza della sorpresa di Octave-Labinski, «che gliene sembra della sua nuova dimora? La sua anima si trova bene nel corpo di questo simpatico cavaliere, hetman, hospodar o grande signore, marito della più bella donna del mondo? Non ha più voglia di lasciarsi morire come progettava la prima volta che l'ho vista nel suo triste appartamento della rue Saint-Lazare, adesso che le porte di casa Labinski le sono spalancate e lei non teme più che Prascovia le metta una mano davanti alla bocca come a villa Salviati, quando le vorrà parlare d'amore? Come vede, il vecchio Balthazar Cherbonneau, con la sua faccia scimmiesca, che potrebbe benissimo cambiare con un'altra, può ancora tirar fuori dal suo cappello di prestigiatore qualche bella sorpresa».

«Dottore», rispose Octave-Labinski, «lei ha i poteri di Dio, o quanto meno di un demone».

«Oh! Oh! Non abbia paura, in tutto questo non c'e ombra di diavoleria. La sua salvezza non è in pericolo: non le farò sottoscrivere un patto con una firma rossa. Non c'è niente di più semplice di quanto è accaduto. Il Verbo che ha creato la luce può ben trasferire un anima. Se gli uomini fossero disposti ad ascoltare Dio attraverso il tempo e l'infinito in fede mia farebbero ben altro».

«Come esprimerle la mia gratitudine e la mia devozione per questo inestimabile servigio?»

«Non mi deve niente. Lei m'interessava e per una vecchia volpe come me, ben corazzato, che ha visto di tutto, un'emozione è una cosa rara. Le mi ha svelato che cos'è l'amore, e come sa, noi sognatori un po' alchimisti, un po' maghi, un po' filosofi cerchiamo tutti più o meno l'assoluto. Ma su, si alzi, si muova, cammini, e veda un po' se non si sente a disagio nella sua nuova pelle».

Ubbidendo al dottore, Octave-Labinski fece qualche giretto per la camera. Si sentiva già meno impedito: benché abitato da un'altra anima, il corpo del conte ubbidiva all'impulso delle vecchie abitudini e il nuovo ospite si affidò a quei ricordi fisici, giacché ciò che gli stava a cuore era assumere l'andatura, il portamento, il modo di gestire del proprietario espulso.

Ridendo, il dottor Balthazar Cherbonneau disse: «Se io stesso non avessi appena effettuato il trasferimento delle vostre anime, avrei l'impressione che stasera sono accadute le solite cose, e la prenderei per il vero, legittimo e autentico conte lituano Olaf Labinski, il cui io sta ancora sonnecchiando nella crisalide che lei ha sdegnosamente abbandonato. Ma fra poco suonerà mezzanotte: si sbrighi perché Prascovia non la rimproveri accusandola di preferirle la zecchinetta o il baccarat. Non è bene iniziare la vita coniugale con una lite: sarebbe di cattivo augurio. Intanto io penserò a risvegliare il suo vecchio involucro con tutte le precauzioni e i riguardi che merita».

Octave-Labinski riconobbe che le osservazioni del dottor Balthazar Cherbonneau erano fondate e si affrettò a uscire. Ai piedi della scalinata scalpitavano impazienti i magnifici bai del conte, che a forza di mordere il freno avevano coperto di schiuma il selciato.

Al suono dei passi del giovane, un imponente domestico in livrea verde, della razza ormai perduta degli aiduchi, si precipitò ad abbassare rumorosamente il predellino della carrozza. Octave, che macchinalmente si era diretto al suo modesto brougham, prese posto nell'alto e splendido coupé e disse al cameriere, che trasmise l'ordine al cocchiere: «A casa!». La portiera si era appena chiusa che i cavalli partirono drizzandosi sulle zampe posteriori, e il degno successore degli Almanzor e degli Azolan si appese ai larghi cordoni di passamaneria con un'agilità insospettabile in un corpo così massiccio. I veloci cavalli superarono in un lampo la breve distanza tra la rue du Regard e il faubourg Saint-Honoré. Con voce stentorea il cocchiere gridò: «La porta!».




Spinti dal portiere i due immensi battenti si aprirono per lasciar passare la carrozza, che girò in un grande cortile coperto di sabbia e si fermo con lodevole precisione sotto un tendone a righe bianche e rosa.

Il cortile che Octave-Lubinski osservò in ogni particolare, con quella rapidità di visione propria di certi momenti solenni, era degno di un grande palazzo. Era un cortile vasto, circondato da edifici simmetrici, illuminato da lampioni di bronzo, nei cui fanali di cristallo simili a quelli che un tempo ornavano il Bucintoro, guizzavano bianche lingue di gas. Cassette di piante d'arancio, degne delle terrazze di Versailles, erano disseminate lungo il bordo d'asfalto che costeggiava la distesa sabbiosa del cortile.

Con il piede sulla soglia, il povero innamorato trasformato in un altro fu costretto a fermarsi un attimo per frenare con la mano i palpiti del cuore.

Del conte Olaf Labinski possedeva solo l'apparenza fisica: tutte le nozioni del suo cervello se n'erano andate con l'anima del vecchio proprietario. La casa che ormai doveva essere la sua gli era sconosciuta e ne ignorava la disposizione interna. Seguì a caso una scala che si vide davanti, pronto ad attribuire a distrazione un eventuale errore.

I gradini di pietra pomice erano di un candore abbagliante e mettevano in risalto il rosso carico della larga guida di moquette fissata da bacchette d'ottone, morbida via suggerita al piede. Giardiniere piene dei più bei fiori esotici salivano con lui ogni gradino.

Un'immensa lanterna intagliata e traforata, appesa a un grosso cordone di seta porpora adorno di nappe e di fiocchi, faceva correre brividi d'oro sulle pareti coperte di stucco bianco e levigato come il marmo, e proiettava un fascio di luce su una copia, eseguita dallo stesso Canova, di uno dei suol gruppi più celebri, Amore che abbraccia Psiche.



Il pianerottolo dell'unico piano era pavimentato di mosaici preziosamente lavorati, e alle pareti erano appesi con cordoni di seta quattro quadri rispettivamente di Paris Bordone, del Bonifazio, di Palma il Vecchio e del Veronese, il cui fastoso stile architettonico si armonizzava con la magnificenza della scala.

Sul pianerottolo si apriva un'alta porta di sergia trapunta di chiodi dorati: Octave-Labinski la spinse e si trovò in una grande anticamera dove sonnecchiavano alcuni servitori in tenuta di gala che al suo ingresso balzarono come molle e si disposero lungo le pareti, impassibili come schiavi orientali.

Octave-Labinski seguitò il suo cammino. Dopo l'anticamera c'era un salone deserto, color bianco e oro. Quando Octave tirò il cordone di un campanello, comparve una cameriera.

«La signora può ricevermi?».

«La signora contessa si sta spogliando, ma fra poco sarà pronta».

(VI - Continua)

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