Monday, February 08, 2010


RICORDO
CON RABBIA
(I)

Caro nonno, scusa se vengo a disturbare il tuo eterno riposo, ma non trovo pace in questa mia affannata stagione. Ripenso a ciò che poteva essere e non è stato della mia vita e mi rivolgo a te come a persona informata sui fatti del mio passato di bambino, quando era il tempo delle promesse e tutto poteva accadere. La memoria ha pietosamente cancellato i dettagli; rimangono solo ricordi confusi, ombre indistinte e un’insoddisfazione, un retrogusto amaro che non mi abbandona mai. Lo so, non è bene riandare col pensiero a questi accadimenti, a certe sensazioni sbiadite ma ancora attive e tossiche, e del resto, anche facendo luce sulla verità, nulla cambierebbe di ciò che sono; ma non riesco a rassegnarmi, non voglio.
Non ho un vivido ricordo di te: sono sempre stato miope e superficiale riguardo gli altri e ossessivamente concentrato solo su me stesso. La mamma aveva il negozio di frutta che la occupava tutto il giorno; il papà faceva il barbiere, poi, quando fu assunto come bidello ed aveva il pomeriggio libero, aiutava la mamma in bottega.





Dopo le ore di scuola, io stavo con te e la nonna. Non avevo amici con cui mi sentissi a mio agio, non mi intruppavo con gli altri bambini, dovevo però comportarmi bene, ed essere bravo a scuola, cortese e rispettoso dei miei compagni e degli adulti, dei loro gusti e giudizi anche a costo di trascurare e reprimere le mie proprie inclinazioni, simpatie o preferenze. Questo è ciò che intimamente desiderava la mamma, una totale adesione all’opinione degli altri, a ciò che loro pensavano di me o decidevano per il mio bene: la dottrina della sottomissione. Sì, erano le sue paure, le sue convinzioni che agivano per lei, povera donna, ma non sono mai riuscito a perdonarla per questo.
Mio padre era la persona più conciliante e più gentile di questo mondo, ma non si è accorto o non ha saputo contrastare con decisione quella regola educativa che richiedeva il sacrificio di sé per guadagnare l’approvazione delle persone. Ma di fatto, pur essendo gentile e cortese, non “legavo” con gli adulti e i coetanei. Mi aggiravo per casa in preda alla noia e ti chiedevo, inutilmente: “E adesso cosa faccio, nonno?”

(I - continua)

Labels:


RICORDO CON RABBIA

(II)

Crescevo cercando un riparo dalla mia coscienza che era in balia degli altri; mi sforzavo di interpretare ciò che loro desideravano da me, e tentavo di adeguarmi, facendo mie le loro convinzioni. Mi è mancata una persona forte in cui identificarmi.
Tu eri l’uomo forte, nonno, tu, un ardito della prima guerra mondiale, che si fregiava di numerose medaglie al valore, che aveva partecipato alla marcia su Roma nel ’22: un fascista convinto; io però a quel tempo non sapevo nulla di tutto questo e non ero in grado di capire. Più avanti trovai una fotografia che sembrava un ritratto di Hitler: lo sguardo inquietante di quegli occhi bovini, i baffetti, la divisa militare...


Ma eri tu, nonno, che posavi, non per gioco, con l’aspetto del Führer. Nel ’46 credevi ancora nella monarchia e speravi nel ritorno dei Savoia. Io non ero ancora nato ma quando la mia vita si affiancò alla tua, le passioni di gioventù si erano acquietate e votavi democristiano.

Ricordo vagamente i tuoi insegnamenti, quando descrivevi i comunisti come una mortale minaccia per il Paese, gettandomi nell’angoscia per il timore che “i rossi” si impadronissero di noi e delle nostre povere cose. Rammento il tuo viso tondo e bonario simile a quello di Papa Giovanni, e il curvo profilo della pancia, quando eri disteso a letto, che saliva vertiginosamente come il binario di un ottovolante sotto la spinta del tuo robusto russare. La domenica mi portavi a messa e a volte sbadigliavi rumorosamente in chiesa: per te il rito cristiano era solo un dovere superficiale, una virtuosa abitudine da esibire come le medaglie, i nastri, le croci al merito che spiegavi sul petto, presenziando ai raduni dei reduci nei luoghi sacri della patria, il Piave, gli ossari dei Caduti, Vittorio Veneto; ma io presi sul serio, troppo sul serio le cose della religione. Ora gli “altri” a cui dovevo ossequio e obbedienza avevano assunto il severo aspetto di un Dio che mi voleva paladino della fede, un crociato in difesa della morale, del bene, dei più elevati ideali dell’uomo e a cui dovevo consacrare la mia giovane vita.

(II - continua)

Labels:


RICORDO CON RABBIA

(III)

Un Dio pieno di difetti, ripensando con il senno di poi, vendicativo, permaloso, umorale e tirannico, un Dio fatto ad immagine e somiglianza dell’uomo, come si ricava dalla Bibbia se la si legge con occhi disincantati. Un Dio guastafeste che fa tiri mancini, autentici scherzi “da prete”, come quando pone nell’Eden l’albero del bene e del male per mettere alla prova Adamo ed Eva, prova inutile ed ipocrita poiché – per onniscienza – Egli già sapeva come sarebbero andate le cose, prima ancora di creare i nostri progenitori. Fa il gran gesto di donare agli umani il paradiso in terra; poi, per un capriccio d’orgoglio, glielo porta via con grave infamia.


Un Dio bizzoso e sempre incazzato che, quando si stanca degli uomini ordina al suo pupillo Noè di costruirsi un’arca per salvarsi dal Diluvio in cui avrebbe annegato tutti gli esseri viventi; soluzione infantile come quella di un giocatore che rovesci il tavolo con tutte le carte, quando si accorge che la partita si mette male. Un Dio sadico che ti chiede continue dimostrazioni di amore e ad Abramo impone la prova più tremenda, quella di sacrificare il suo unico figlio, Isacco, fermando solo all’ultimo istante la mano assassina.


Un Dio che si incaponisce a favorire un popolo più testone di Lui, gli Ebrei, da cui pretende ubbidienza cieca, sottomissione e sacrifici, quel popolo che, nel lungo viaggio verso la terra promessa, pur potendo constatare direttamente la potenza del Signore - che aveva infierito sul suo oppressore con le piaghe d’Egitto, che aveva diviso le acque del Mar Rosso per aprirgli la strada verso la Palestina,


che lo aveva nutrito facendo cadere la manna dal cielo -,


nel momento in cui Mosè sale al Sinai per ricevere le tavole della legge, dimentica tutti questi favori e prodigi votandosi al culto pagano del vitello d’oro.


Un Dio pieno di sé, ossessionato dalle manifestazioni di riconoscenza, dai rituali, dai sacrifici e dagli olocausti cui il popolo eletto si deve conformare per tributarGli perpetua riconoscenza, amore ed onori; che arriva a prescrivere la pena di morte per chi dovesse profanare con il lavoro il giorno a Lui consacrato, il sabato, destinato al riposo. Un Dio sessuofobo e maschilista che punisce l’adulterio con la morte e vuole la moglie vergine, a pena di lapidazione se viene scoperta impura, e soggetta al marito. Un Dio che incenerisce tutti gli abitanti di Sodoma e Gomorra poiché dediti ai piaceri carnali e fa morire Onan colpevole di ricorrere al coitus interruptus per non avere figli. Che ingiunge di non fornicare, vergando di Suo pugno le tavole della Legge, ma stabilisce che è peccato anche il solo desiderare la donna d’altri.

(III - continua)

Labels:


RICORDO CON RABBIA

(IV)

Con un Padre così, come si può credere ciecamente nella natura divina di suo Figlio, Gesù Cristo? Dio fatto uomo per morire ad opera degli uomini, l’Agnello sacrificale che toglie i peccati del mondo, e in primis il peccato originale, quella debolezza di Adamo ed Eva propiziata dal Padre stesso che poi invia il Messia per riparare ai Suoi propri pasticci. Cristo che incarna una tipica ossessione degli Ebrei e delle religioni arcaiche, quella del sacrificio, dell’olocausto, del capro espiatorio che viene ucciso per la remissione dei peccati.




E tutti noi, Cristiani, veniamo alla luce già con un debito da saldare, una macchia dovuta a quel peccato originale che si cancella solo con il battesimo, la buona condotta e il pentimento. E soprattutto siamo gravati da un dovere di gratitudine per quell’estremo sacrificio del Figlio di Dio, cui dobbiamo la nostra Redenzione, la quale tuttavia non è garanzia di Salvezza poiché potremmo sempre renderci colpevoli e meritare la condanna eterna per i nostri peccati che poi, a ben vedere, sono soprattutto di natura sessuale... Noi, Cristiani, l’unico popolo di cui abbia conoscenza, che ha ammazzato il proprio Dio.

Scusa nonno, non voglio sconvolgere le tue certezze, ma come si può ragionevolmente credere a tutto questo? Questa religione non è fatta per i bambini e forse neanche per gli uomini.

Fin da piccolo ti insegnano che tutto è peccato, e devi astenerti da un mucchio di cose, soprattutto da ciò che potrebbe darti piacere. Cresci con un senso di colpa paralizzante per un oscuro delitto che non hai commesso ma che devi comunque espiare. Devi essere contrito e mortificarti per fatti e avvenimenti remoti estranei alla tua vita. Devi vergognarti e soffocare dentro di te l’istinto naturale che ti spinge a cercare la tua soddisfazione, ripudiando i desideri e le tentazioni della carne prima ancora di aver capito di che cosa si tratta e soprattutto, prima ancora di averlo assaggiato.

Ma io allora ero un fertile terreno per seminarvi una dottrina e nessuno mi ha insegnato a difendermi dalle opinioni altrui. Forse una tua convinzione, nonno, che familiarmente applicava quel motto del Duce, “Credere, obbedire, combattere”, ha sortito un effetto devastante su di me, come un ordigno a scoppio ritardato. A quel tempo mi sforzavo di adeguare il mio comportamento alle indicazioni della Chiesa, ma non ero in pace con la mia coscienza perché sentivo di non essere meritevole, illuminato, confortato dalla fede; dubitavo di me stesso e della sincerità del mio credere; celavo la mia inettitudine, la paura del sesso e dei sentimenti dietro il rigido paravento della morale, degli ideali etici, della seriosa autodisciplina.




(IV - Continua)

Labels:

RICORDO CON RABBIA

(V)

Quando iniziai le scuole superiori, la mia angoscia crebbe. Ogni giorno mi scontravo con la disinvolta, artificiosa vitalità dei miei compagni, con l’ambiente umano, a me estraneo e ostile cui muovevo una guerra silenziosa. Rimanevo aggrappato al mio moralismo, ai rigori, alle mortificazioni medievali, per paura di contaminarmi, perché tutto era peccato, eccesso e sregolatezza.

E poi i miei turbamenti sessuali, di cui avevo vergogna e cercavo di soffocare come potevo. Con le ragazze era un vero disastro, non sapevo cosa fare, scappavo via, evitavo qualunque contatto e del resto non avrei potuto neppure immaginare un rapporto con una persona dell’altro sesso, perché mi sentivo un mostro: io, la cupa Bestia senza speranza, lei la Bella soave, disinvolta, inarrivabile. E il lieto fine appartiene solo al mondo delle favole.

Alla mattina, prima di andare a scuola, entravo qualche volta in chiesa, solo pochi minuti per chiedere al Signore di aiutarmi ad affrontare la giornata, a sopportare l’ansia delle relazioni con gli altri, i quotidiani confronti, i commenti crudeli, le prese in giro da cui uscivo sempre umiliato e sconfitto e in odio a me stesso. Ma Dio se ne stava distante e muto, come sempre. In quel periodo, mio padre temeva che volessi farmi prete.


Avrei dovuto fare come te, nonno: lanciarmi all’assalto delle femmine che se ne stavano impassibili ad osservare le mosse dei ragazzi, protette dal filo spinato dietro nidi di mitragliatrici; avrei dovuto affrontarle da ardito, con il pugnale fra i denti, la baionetta inastata e le bombe a mano, superando d’un balzo i campi minati e il fuoco nemico, piuttosto che rimanere nascosto, a macerare fra paura e disperazione nel fango della trincea.


Poi è esploso l’amore, beffardo, spietato, dirompente, distruggendo tutte le mie difese, le linee gotiche, le mura fortificate che avevo eretto per proteggermi dal mondo femminile, lasciandomi nudo e inerme a vagare fra le macerie del mio moralismo. Lentamente, dolorosamente una rivolta interiore mutò obiettivo: di nuovo mi trovavo a combattere contro me stesso, ma sul fronte opposto, da penitente dovevo trasformarmi in epicureo, edonista, superuomo, al di là del bene e del male. La mia mente si apriva al piacere, alla libertà sessuale, si liberava di ogni catena, di ogni pastoia morale, ma le reazioni del mio corpo, le paure, le angosce, le mie non relazioni continuavano ad essere quelle dell’adolescente chiuso nel suo bunker.

Tutto era cambiato entro di me, perché nulla cambiasse. Una vittoria di Pirro. Avevo gettato alle ortiche il rude saio del religioso per indossare le lussuose vesti del libertino: ho dovuto amaramente constatare che l’abito non fa il monaco ma neppure il gaudente. L’amore aveva distrutto senza ricostruire; mi aveva salvato ma non sanato; non era riuscito a contrastare le oscure forze del passato e così si è dissipata la mia giovinezza.

Ho raccolto la mia vita all’inizio del sentiero, e mi è scoppiata fra le mani. Estraneo a me stesso ho consumato anni monchi e imbelli, fino a questo rabbioso finale di partita… E adesso cosa faccio, nonno?…

(V - Fine)

Labels:

LETTERA A UN AMORE MAI NATO

– Amore mio – mi rivolgo a te con questa abusata parola, stravolta, svilita, svuotata di senso, ipocritamente pronunciata per scopi anche opposti al sentimento cui si ispira – ti prego di leggere con pazienza questa mia tardiva dichiarazione che non ha alcuna pretesa se non quella di rivolgerti un saluto con la penosa sensazione che potrebbe anche essere un commiato.


Ti inseguo da tanti anni, potrei dire da una vita, ma non ti sei mai voltato a guardarmi, nel tuo svagato, leggero fluire, mosso da correnti nascoste verso mete lontane, lungo rotte misteriose e imprevedibili che non ho mai saputo raggiungere o indovinare. Raramente sono stato bersaglio delle tue frecce, ed ogni volta mi sono sentito perduto. Non possiedo l’esibita sicurezza di chi ritiene il proprio sentimento puro e assoluto, conosco solo lo smarrimento, il senso di inadeguatezza, l’infinita pena di chi non sa donare il proprio cuore.

Da tempo osservo le tue mosse e le tua mutevole, bizzarra natura, ma di nascosto, con l'ansia di uno scolaro che si sente impreparato; col passo furtivo di un ladro che insegue un facoltoso damerino per cercare di sottrargli qualche soldo in un momento di distrazione. Ma sei troppo vigile e attento e severo con chi non ha fiducia in te. Nulla hai voluto concedermi: sono cresciuto nell’indigenza e nell’angoscia, perché tu sei la mia malattia, ma anche la mia medicina, un farmaco salvavita, necessario, cruciale, indispensabile, ma riservato a pochi eletti; introvabile, irreperibile, indisponibile proprio nel momento del maggior bisogno. E non c'è dubbio che io sia un sofferente cronico, un malato incurabile in fase terminale.


Non ho mai osato mettermi sulla tua strada, per impietosire, pretendere o elemosinare, come un questuante; un maledetto orgoglio me lo impedisce: è la condanna dell’uomo che non deve chiedere mai e che, appunto, nulla ottiene e nulla stringe. Un perverso automatismo mi obbliga a fuggire i tuoi sguardi, a soffocare le mie emozioni e a vergognarmene, a nascondere i miei desideri mostrando indifferenza. Pensi che io non abbia il coraggio di affrontarti a viso aperto, che abbia paura dei miei sentimenti? No. Si tratta di un ancestrale timore, una diffidenza inestinguibile verso colei in cui tu ti incarni, la donna, la femmina, l’essere che ha il cruciale privilegio della scelta e può arbitrariamente decidere della tua felicità o della tua disperazione, salvarti o dannarti con un “Si” o un “No”. Come posso accettare che il mio destino sia nelle mani di un essere così estraneo alla mia anima, così miope, spietato, capriccioso e ingiusto?... Ma così è stato per me… E allora crepi Sansone con tutti i Filistei! Una natura matrigna o un dio sadico e crudele, hanno congiurato affinché io fossi sempre in guerra con me stesso e il mio cuore un eterno campo di battaglia, luogo di sconfitte, dolore, morte e devastazione… Ineffabile crudeltà della vita.


Capisco che questa mia confessione non ha i toni elogiativi di chi cerchi benevolenza, ma non sto scrivendo una lettera di benemerenze, né una richiesta di grazia. Non posso evitare di rendermi sgradevole e, a voler essere sincero fino in fondo, dei miei disastri amorosi un po’ di colpa l'hai anche tu. Come ci si può abbandonare ciecamente ad un sentimento così totalizzante, accentratore, possessivo e anche egoista nella sua pretesa che lei, la persona amata, debba corrispondere con pari entusiasmo, passione, impegno, perdita totale di sé al tuo perfetto sentimento nei suoi riguardi? L’amore è per sua natura tirannico e assolutista: per questo è così raro. Ed è anche altamente deperibile; una condizione emotiva che si corrompe facilmente, un alimento dello spirito che è necessario consumare fresco, non essendo possibile conservarlo, intatto nel gusto e nel sublime sapore, oltre la data di scadenza la quale è spesso molto diversa fra i due soggetti coinvolti. Scusa la pedanteria, ma ormai che altro ho da perdere?
Il tempo ha consumato inutilmente ogni mia illusione, anche se la bellezza non ha smesso di straziarmi, ostile come è sempre stata e nemica, ora più che mai. Guardo le mie coetanee, quelle che avevano vent’anni quando anch’io avevo vent'anni: ancora, un volto, un sorriso, uno sguardo, il molle sussulto di un seno, la curva armoniosa dei fianchi, le gambe, l’ipnotico dondolio di natiche e cosce, mi feriscono con scintille di desiderio, ma non è più il corpo nella sua interezza ad accendermi di passione: le polveri sono bagnate…

Ah se fosse possibile innamorarsi di una donna formata con parti da te scelte, secondo il tuo gusto, una donna componibile come certi mobili moderni, una donna Ikea!… Ma sono convinto che nessuna di quelle parti femminili ricambierebbe il mio amore: subito fuggirebbero scandalizzate.


Non temere, non voglio sconvolgere i tuoi arcani disegni, le divertite trame: non ho frecce, non ho amuleti, non ho filtri magici: sono un seduttore senza carisma, un erotomane pudico, un casto libertino. A dire il vero, non sopporto più che tu ti faccia beffe dei miei sentimenti. Quando mi ferivi con qualche tua saetta vagante, la mia sofferenza era doppia poiché avevi trascurato di colpire proprio colei cui mi votava amore. Basta. Non tollero altri giochi crudeli; rassegno le dimissioni da questo inafferrabile mondo di affetti e passioni che mi hai fatto solo intravedere, per tormentarmi, dalla perenne anticamera della mia vita. Ho una dignità anch'io, nonostante tutto, per cui abbandono ogni illusione, ti lascio; cedo ad altri il posto così indegnamente occupato in questa umana commedia di cui sono riuscito ad essere solo irrequieto spettatore. Sigillerò la mia anima in un ruvido guscio nel crudo inverno che mi spetta.

Addio.

Labels: