Saturday, May 26, 2007

La Gatta e la Volpe

28/02/2007 (Quarta-feira: tarde)

Arrivato all’hotel, chiedo alla Reception quanto costerebbe la camera se volessi proseguire oltre la data fissata con l’agenzia di viaggio. Mi pare che la risposta sia 150 o 180 R$ al giorno: troppo, considerando che ho la possibilità di condividere l’importo solo con me stesso.




Visto che ci sono, chiedo esplicitamente se posso portare una donna in camera, intendendo che non la terrei a dormire. Anche per questo c’è una tariffa: non meno di 150 R$. Se non è un equivoco, è un furto, dato che in effetti io già pago per due, occupando da solo una camera matrimoniale che mi costa, appunto, il doppio dell’importo a persona. Ennesima delusione. Solo l’ignoranza della lingua mi impedisce di protestare i miei “diritti”. Probabilmente in un hotel di categoria più bassa sarebbe sufficiente allungare una mancia al portiere di notte.



Raggiungo la mia stanza; mi metto a leggere. Qualunque possibilità di sbloccare la situazione è rimandata al 2 marzo, quando mi sarò trasferito in una pensione o in un appartamento e sarò (teoricamente) libero di portarmi una donna in camera senza dover elargire denaro a destra e a manca. Verso le 4 mi chiamano dalla portineria: c’è Gabriela.






Non me l’aspettavo. Avevo in progetto di andarla a trovare più tardi alla spiaggia. La trovo seduta nel salottino dell’albergo, ma non è sola. Si è portata un’amica che ha l’aria disinvolta e l’occhio birichino. La ragazza è alta, un po’ più scura di Gabriela, i capelli schiariti raccolti in treccine. E’ graziosamente sbarazzina con quel suo top che lascia intravvedere l’ombelico. Si chiama Jean (lei, non l’ombelico…).





A Gabriela spiego che non posso farla salire in camera, ma probabilmente non ne aveva l’intenzione, visto che si è portata l’amica. Usciamo per andare a prendere qualcosa. Jean è decisa e vispa. E’ lei che guida il gruppetto e sceglie la direzione. Giriamo un po’ per il quartiere Barra, poi ci fermiamo in un piccolo bar che ha qualche sedia all’esterno. Io prendo solo un suco; le ragazze si bevono 2 o 3 bottiglie di birra e poi si fanno portare anche delle batatas fritas. Jean come e bebe (“mangia” e “beve”), e va spesso in bagno.



La situazione è imbarazzante per tutti, spesso penosa. Loro non capiscono un accidenti di italiano e tanto meno di inglese. Una caratteristica comune dei brasiliani che incontro è che hanno poca o nessuna cultura. Alle volte sanno a mala pena scrivere.

Apprendo che Gabriela ha avuto il bambino a 17 anni e che la sua amica ha attualmente 19 anni, uno meno di Gabriela, anche se sembra più grande ma solo perché più alta. I dati li rilevo dalle reciproche carte di identità; guardando i documenti noto che qui le persone hanno almeno due cognomi: quello del padre più quello del marito, se sono state sposate, o della madre. Jean ha un bel viso, più seno dell’amica e un bel sederino slanciato dalle gambe lunghe e dai jeans attillati. E’ lei che propone e “tratta” con i baristi.




Dato che la prospettiva è sempre la solita, cioè andare “in bianco”, vorrei tornare all’albergo.
Ritengo che le ragazze siano già sazie, avendo pasteggiato con patatine e ketchup e dato che di fare sesso non se ne parla neppure, l’eventuale cena che offrirei in cambio vorrei rimandarla a cose fatte. Ma Jean ha evidentemente l’intenzione di sfruttare la serata, a mie spese; è insaziabile, ma solo di cibo. Gabriela è più timida e delicata, si adatterebbe a tornare a casa, ma l’amica è trascinante: quando si dice le cattive compagnie!




Jean vuole andare a cena. Per evitare che scelga lei il locale, propongo un posto vicino al faro dove ero stato la sera precedente: non comprendendo bene il menu, avevo ordinato una porzione intera e così mi son visto portare un piatto di frago, cioè “pollo”, versione da carrettiere e copertura di salsine. Bontà sua, Jean divide con me una porzione intera di pollo alla parmigiana. Si beve altre due lattine di Sprite che preferisce alla Coca Cola perché quest’ultima “la gonfia” (certo che se si scola abitualmente tutta quella birra più la Sprite, il risultato non potrà che essere lo stesso della Cola). Gabriela si accontenta di un piatto più modesto. L’amica chiede il conto e prende visione dell’importo, invero non eccessivo. Si preoccupa per l’aggiunta del 10% di servizio (pessima abitudine che pensavo fosse solo un vizio dei ristoratori italiani) quasi fosse lei a dover pagare. Allungo la carta VISA perché con il contante non ci arrivo, ma lei prende i soldi e li fa bastare.
Gabriela ha assistito, silenziosa e imbarazzata. E’ un peccato non riuscire a comunicare, o forse è meglio così: si evitano discorsi spiacevoli. Scrive su un foglietto il suo numero di telefono affinché io la richiami: si sottopone docilmente al sacrificio d’amore. Jean non aggiunge il suo numero e io non glielo chiedo. Penso, mi illudo che la serata sia conclusa. Sono stato ripulito di tutto il contante, come al Casino, ma non ho avuto nessuna delle soddisfazioni che un uomo avrebbe il sacrosanto diritto di ottenere da una donna dopo tanta generosità. A me è sempre riservata la figura del fesso, anche in Brasile… Sono disperato. Perché sempre questo destino? Sono troppo buono, dovrei praticare solo un sano egoismo, ma è troppo tardi per cambiare.

Ci dirigiamo verso l’albergo. Non ho più contanti. Quando siamo ai piedi della gradinata che sta di fronte all’hotel, Jean ha un nuovo capriccio. Si sente in diritto di chiedermi altri soldi per andare a fare shopping in centro e poi tornare a casa in taxi (fa da “interprete” uno dei taxisti lì in sosta). Nasce una piccola discussione. La pretenziosa signorina vorrebbe, per sé e l’amica, “fiftyreais. La mia proverbiale dialettica è annullata dall’ignoranza della lingua locale e dell’inglese. Avrei volentieri rispedito Jean a casa a suon di calci e ceffoni, ma per non compromettere i futuri, ipotetici, incontri con Gabriela, alla fine cedo. Salgo in camera a prendere il danaro richiesto e lo porto alle ragazze. Io sono umiliato ed offeso; Jean è trionfante; Gabriela è palesemente a disagio: mi ricorda sommessamente di telefonarle per rivederci (“ligar para mim”, “para repeter”): evidentemente si sente in colpa per aver portato una coetanea così invadente. Ma tu guarda se mi devo fare infinocchiare così da una squinzia che ha assai meno della metà dei miei anni!

Labels:

Saturday, May 19, 2007

Pelourinho

Mercoledì 28/02/2007 (Quarta-feira)

Al mattino faccio colazione presto. Una giovane incaricata dell’albergo controlla che chi accede alla sala del breakfast sia ospite dell’hotel. E’ un tipo “africano”, pelle color cacao con riflessi ambra e i capelli raccolti in treccine parallele a partire dall’attaccatura. Gli occhiali da vista con la montatura nera le conferiscono un’aria professionale. Evidentemente, per “motivi di servizio”, veste sempre lo stesso completo color kaki, forse l’unico abito “all’europea” che possiede, ma i pantaloni attillati e le natiche sporgenti tradiscono le forme tipiche della donna africana. E’ graziosa ma distaccata. Tutta presa dal suo incarico ufficiale, non si scioglie mai in un sorriso, almeno nei miei riguardi. Io le sono indifferente o antipatico: mai uno sguardo in più dello stretto indispensabile, sempre tenuto a distanza, fin dall’inizio. Due giorni prima l’avevo incrociata alla fermata dell’autobus: forse non mi aveva visto; in ogni caso non aveva dato alcun segno di avermi riconosciuto.
Durante la colazione diluvia, ma ben presto il temporale finisce e inaspettatamente si apre una splendida giornata. Fra gli ospiti noto per la terza volta un tipo sui 40 anni, alto, snello, viso scavato, capelli alla nazarena, accenno di barba sale e pepe. Ha l’aria dell’uomo vissuto, dell’avventuriero e infatti, coerentemente con il suo aspetto da conquistador spagnolo, è sempre affiancato da una giovane e bella mulatta,che evidentemente dorme con lui visto che scendono assieme a far colazione.
Ma come ci si procura uma rapaiga, una ragazza, qui a Salvador?
Decido di farmi portare in taxi nel centro storico, il Pelourinho (“Pelo” per gli amici: destino di un nome…), dove si è conservata quasi intatta l’atmosfera coloniale dell’antica capitale del Brasile e la tipica architettura dei secoli XVII e XVIII.

Al taxista chiedo dove si può trovare uma mulher, una donna. Lui sorride, farfuglia qualcosa che non capisco ma rimane evasivo. Forse pensa che io voglia farmi una ragazza, ma ripeto che vorrei trovare una donna sui 30 anni piuttosto che una moça, al cui confronto mi sentirei un vecchio sozzone. Domando se nei paraggi ci siano dei locali dove si può fare amicizia: night o sale da ballo. Il mio interlocutore fa segno di sì ma poi non mi indica nulla. Non è un tipo molto loquace; la conversa, il dialogo langue e ben presto sono costretto al silenzio.
Mi guardo d’attorno. Stiamo attraversando una bella città, viva, ricca di verde, con ampi viali e scorci incantevoli. Ogni tanto, purtroppo, svettano dei palazzi-grattacielo con decine di piani, brutture architettoniche che raccolgono centinaia di appartamenti o uffici, edifici imponenti che sembrano la versione povera di New York, eretti senza controllo probabilmente perché non esiste un piano regolatore o non viene fatto rispettare.


“Sbarcato” nella storica Plaça da Sé, dopo pochi passi mi infilo nella cattedrale che sta su un lato della piazza: solo 2 R$ per l’entrata e la “manutenzione della chiesa”.
Appena dentro sono avvicinato da Claudio, un ragazzo munito del distintivo di guia (“guida”) che, non richiesto, mi fa da cicerone in un portoghese semplificato con qualche parola di italiano. Mi porta poi a visitare la sacrestia, dove ci sono mobili e arredi in legno pregiato. Qui mi propone un giro panoramico del Pelourinho (due orette per circa 100 o 150 R$, non comprendo bene i numeri) oppure una visita delle zone caratteristiche di Salvador, compresa l’Igreja do Bomfim, luogo di pellegrinaggio del XVIII sec. che sorge nei pressi della penisola omonima un po’ distanziata dalla città. Non sono molto interessato ad una guida del centro storico in una lingua che non comprendo. Per non deludere il mio volenteroso “operatore turistico” chiedo di lasciarmi il suo n. di telefono e verso quella che ritengo una mancia conclusiva per il “servizio”. Claudio è visibilmente deluso; in silenzio mi riaccompagna all’uscita, ma quando siamo nell’atrio-biglietteria mi chiede 20 R$ per la “guida” da me non richiesta e nemmeno concordata. Da nessuna parte vedo cartelli che indichino una guia a pagamento e tanto meno un’indicazione del prezzo. Pago senza fare storie: un real qui equivale a mezzo dollaro americano. Naturalmente Claudio non mi sconta la mancia.
Esco. Attraverso il Terreiro de Jesus ed ho di fronte il complesso religioso più celebre di Salvador, l’Igreja e Convento de São Francisco, con la caratteristica facciata in Barocco brasiliano del XVII sec. delimitata dai due campanili.



Dall’ingresso principale si accede al chiostro con il portico rettangolare sotto il quale si trovano gli azulejos, le famose raffigurazioni realizzate applicando formelle di maiolica dipinta alle pareti, come nel monastero di S. Chiara, a Napoli. Le composizioni utilizzano tutte le sfumature di un solo colore, il blu (azul-escuro, da cui il nome) e rappresentano scene bibliche, allegorie, insegnamenti morali con citazioni latine da Orazio: sono interessanti, ma nessuno me le spiega.


Li caratterizza, oltre alle solite ridondanze barocche, un disegno che non cerca, volutamente, alcuna verosimiglianza storica. Nella scena del Mar rosso, quando le acque si richiudono sopra le truppe del faraone lanciate all’inseguimento degli Ebrei, i soldati egiziani hanno elmi e armature uguali a quelli dei soldati portoghesi contemporanei degli artisti.



La vera e propria Chiesa di S. Francesco si trova a sinistra rispetto all’ingresso. L’interno è molto bello e ricco di stucchi dorati, ma tutte quella ridondanza di barocchismi mi stanca. Troppo oro, troppi orpelli, nessuna semplicità; ogni minimo spazio è ricoperto di fregi e decori, come un’intricatissima foresta di foglie gialle sfavillanti che ti disorientano: non ci si può concentrare su un particolare, percepire o seguire un dettaglio, avere una visione d’insieme meno soffocante.





Sono sempre solo e svogliato. Cerco di distrarmi passando in rassegna, una ad una, tutte le composizioni bluette del chiostro. Poi mi siedo su una panchina, leggiucchiando senza troppo interesse un foglietto illustrativo di S. Francisco che avevo trovato all’ingresso. Ogni tanto qualche gruppo di turisti si raccoglie al seguito di una guida che spiega in francese, in inglese, in portoghese. Un gruppo sparuto di sessagenari italiani arriva quando io ho già concluso la visita.
Ritorno sulla piazza. Scorro il fianco del complesso di São Francisco, indugiando davanti ad un punto caratteristico dove ci sono capannelli di europei intenti a scattare foto. Purtroppo, essendo isolato, sono facile preda dei venditori che infestano Il Pelourinho e ti propongono collanine, CD, oggetti tipici. Mi sottraggo ai loro attacchi, infastidito e disgustato. Sono come le mosche in estate: una la allontani e cento ti assediano. Non si riesce a stare un minuto fermi a guardare un monumento che sei tormentato da tutta questa gente bisognosa. Un venditore è particolarmente insistente, non riesco a togliermelo di torno neppure avviandomi. Con qualche parola di italiano mi offre collane, braccialetti o pendagli per “mia moglie”, la “mia ragazza” o la “mia donna”. Mi mostra un ciondolo che dovrebbe rappresentare “la figa brasiliana”: non capisco il nesso. Vorrebbe che comprassi almeno il CD con la musica del Carnevale di Bahia. Ripeto che non mi occorre niente, non voglio caricarmi di inutile zavorra per il viaggio di ritorno. Finalmente l’uomo desiste dal suo appiccicoso sistema per guadagnare qualche soldo. Mentre mi allontano fa qualche commento malizioso: “No donna, no musica, no ricordo di Salvador...”. Borbotta qualcosa di incomprensibile. Probabilmente si domanda che cosa ci sia venuto a fare in Brasile…e non ha torto! Conclude esclamando: “Duri, duri, questi Italiani!”. Ha ragione, dal suo punto di vista; bisognerebbe aiutare la gente povera, ma anch’io devo vivere e probabilmente, per ciò che riguarda l’amore, sono più disgraziato di lui. Ritorno sui miei passi.



Mi fermo ad un bar nei pressi di Plaça da Sé. Scelgo malauguratamente un tavolino a ridosso della cancellata che delimita l’area esterna del locale dalla strada. Subito un ragazzo si avvicina alla grata per chiedermi qualche reais. Il cameriere lo caccia via. Dopo un po’ il ragazzo ci riprova con le sue lamentose richieste. Gli do 2 R$, ma ne vorrebbe 5 per mangiare “um prato”, un piatto al bar. Il cameriere mi fa sedere ad un tavolino centrale, distanziato dalla cancellata.
Avrei in progetto di tornare a piedi: sarebbe una bella camminata di qualche chilometro, ma la prospettiva di essere tormentato lungo la via da venditori e questuanti mi induce a propendere per il taxi.
Mi alzo dal tavolino; faccio due passi in direzione di un monumento moderno con vista sul porto. Mi si avvicina un “menino”, un ragazzino sui 10 anni per darmi un nastro giallo con su scritto “Salvador de Bahia”. Mi dispiace che dei criaças, dei bambini, siano costretti a tormentare i turisti per racimolare qualche soldo. Sono desolato di doverlo deludere: volentieri gli avrei dato qualche cosa ma non ho moneta, né banconote di piccolo taglio. Qui in centro bisognerebbe girare con un sacchetto pieno di spiccioli. Quest’ultima disavventura mi convince a ritornare al più presto all’hotel prendendo un taxi.

Labels:

Monday, May 07, 2007

Gabriela, cor de canela

Martedì 27/02/2007 (Terça-feira)


Gabriela è una ragazza minuta, non ha quasi seno ma è graziosa; del resto, quando sono giovani, quasi tutte le donne sono carine, soprattutto qui a Salvador. E’ di pelle scura, come la maggior parte delle persone da queste parti, ma è un color cacao o cannella, simile a quello delle nostre ragazze bianche quando sono molto abbronzate.
La moça fa da tramite fra la signora che prepara la farinata e i possibili clienti della spiaggia. Ricava qualcosa solo da quello che le viene ordinato, e non è molto.
Sulla praia, appoggiati al muretto e lungo la strada che costeggia l’oceano ci sono un’infinità di venditori che cercano di guadagnare qualche soldo per vivere. Propongono di tutto, dall’agua de coco (molto scadente, in verità: non è “succo” ma “acqua” con un vago sapore di cocco ancora acerbo) alle carte geografiche del Brasile. Rimanendo un po’ sotto il sombrero si avvicinano, non le famose donnine, ma ragazzi in genere simpatici e non petulanti che ti offrono orecchini, collane, prendisole, pareo coloratissimi, creme protettive e ogni genere di cose da mangiare, oltre a proporti tatuaggi e massaggi rilassanti. Sono cordiali e non insistenti, ma sono troppi!... Ad uno di questi che ha con sé un raccoglitore con tante figure in bianco e nero, spiego per l’ennesima volta che non amo i tatuaggi e voglio restare branco (cioè “bianco”, con la pelle priva di disegni). Sorridendo mi fa vedere che non vengono fatti buchi sull’epidermide, ma viene solo disegnata la figura con l’inchiostro. A titolo dimostrativo, prega una ragazza lì vicino, la più giovane di un gruppo di tre donne, di mostrarmi il grazioso disegno che le orna il fondo schiena, poco sopra le slip. La ragazza mi interesserebbe assai di più del disegno, ma lei non si offre ed io non ho il coraggio di propormi. Questi venditori, quando comunque rifiuti la loro proposta, sono tuttavia allegri e cortesi. Spesso ti salutano con un gesto simile all’OK, alzando il pollice come usava fare Fonzie nel famoso serial americano di 30 anni fa.
Tuttavia la gente qui non è malata di “americanismo”, come da noi. Non ci sono turisti americani in giro e i locali ignorano generalmente anche le più comuni parole di inglese. Gli americani sono chiamati gringos; non so se in senso spregiativo.
Un cameriere di una trattoria alla buona nei pressi del faro voleva sapere da me come si dice “acqua” in inglese. Quando mi ha portato la conta, con il totale scritto a penna in una forma illeggibile, aveva voluto fare sfoggio di conoscenza linguistica, dicendo qualcosa tipo “venti-oito” cioè “twenty-eight” ma che non avevo compreso, data la pessima pronuncia.
Verso le 4 del pomeriggio si mette a piovere (cosa che qui capita non di rado e all’improvviso, cessando però dopo poco). Il programma messo a punto da Jay con l’interessata, comportava che lei mi avrebbe accompagnato all’hotel, vedendo quindi dove alloggiavo, per ritornare alle 19.00, salire in camera, stare in intimità con me e poi andare a cena. Durante la permanenza in spiaggia Gabriela si era seduta occasionalmente accanto a me per qualche minuto, per fare amicizia, ma eravamo entrambi privi di argomenti di conversazione, anche per la difficoltà di farsi capire, io parlando un italiano semplificato, adatto per minorati mentali, e lei la sua lingua, con pari lentezza. Mi comportavo da perfetto signore, gentile ma distaccato; non le mettevo le mani addosso. Chi ci avesse osservati poteva pensare, se non fosse stato per la diversità di pelle, che fossimo padre e figlia…ed era questo il motivo del mio imbarazzo: quell’incolmabile differenza d’età mi faceva sentire un pedofilo.
Alle 4 la “giornata lavorativa” di Gabriela è finita. Ci incamminiamo verso l’albergo. Lungo il tragitto cerco di comunicare.
Mi sembra una brava ragazza. Ha 20 anni ed è già mamma di un bimbo di due anni che ha avuto da un uomo con cui si era sposata e poi rapidamente separata. Si mantiene con quel unico lavoro durante la stagione estiva. Vive in famiglia con la madre e le sorelle. Anche la madre è separata e “gode” di un modesto stipendio da impiegata. “A vida è dura!” commenta Gabriela. Mi sembra di capire che qui non viene imposto al marito il sostentamento della ex moglie e dei piccoli.
Ogni tanto la mia compagna mi trattiene gentilmente per il braccio quando attraversiamo la strada: è un primo, timido contatto fisico.
Mi sento un po’ osservato. Arriviamo davanti all’hotel. Lei è un po’ titubante sulla modalità del nostro appuntamento. Io vorrei che salisse in camera: non capisco perché non si possa stare assieme prima di andare a cena. Jay mi aveva assicurato che non ci sarebbero stati problemi con la portineria dell’albergo. Gabriela chiede ad un taxista di fare da interprete: questi dovrebbe masticare un po’ d’inglese, ma in effetti lo conosce assai meno di me. “Non ci sarebbero problemi se la ragazza fosse più grande.” Piccola com’è, potrebbero pensare che è una minorenne e all’entrata le chiederebbero i documenti. Lei ovviamente non ha con sé la carta d’identità.
Si forma un piccolo capannello proprio davanti all’hotel. La mia dignità sprofonda al livello più basso mai toccato in tutta la vita. Un altro taxista consiglia di andare in un motel (lui naturalmente ci avrebbe accompagnati), ma anche lì occorrerebbe la carta d’identità.
Nella confusione generale, come negli esilaranti finali delle farse o delle opere buffe rossiniane, sul genere de: “L’italiana in Algeri”, si avvicina una ragazza che cerca di impietosirmi con una triste storia di problemi familiari, di malattie, di figli da sfamare, ecc. che ovviamente mi infastidisce per l’inopportunità delle richieste. Chiede: “Parlez vous français?”. Ho la pessima idea di assecondarla, cosicché mi rispiega la storia in quella lingua. Per sbrogliarmi, ma anche dicendo la verità, rispondo: “Pas d’argent”, “Non ho moneta”. In effetti, non ho spiccioli, ma solo banconote di taglio medio alto. Finalmente mi libero dell’importuna, che aveva ripreso la sua lamentosa piéce in portoghese, promettendo di darle qualcosa l’indomani. Il tassista mi avverte che si sarebbe presentata lì il giorno dopo all’ora che le dovevo indicare. Le dico che può andar bene per le 4 o le 5. Finalmente se ne va.
Gabriela è un po’ frastornata ed anch’io. Si rimanda tutto all’indomani. Spero che porti i documenti e non ci siano altre difficoltà.
Ormai mi sono sputtanato davanti a tutto l’hotel. Tuttavia ho buone speranze che alla reception non abbiano notato nulla poiché l’entrata è posta abbastanza in alto rispetto al livello stradale.

Labels: