Friday, August 20, 2010

AVATAR XII - Fine

XII


            Durante il tragitto fra il Bois de Boulogne e la Rue Regard, Octave de Saville disse al dottor Cherbonneau:
            «Mio caro dottore, ancora una volta metterò alla prova la sua scienza: le nostre anime devono tornare nella loro rispettiva sede. Per lei non dev'essere difficile. Spero che il signor conte Labinski non gliene vorrà per avergli fatto scambiare un palazzo con una capanna e aver dovuto albergare per qualche ora la sua brillante personalità nel mio povero corpo. D'altronde, lei ha tali poteri da non temere vendette».
            Dopo aver fatto un cenno di assenso, il dottor Balthazar Cherbonneau disse: «L'operazione sarà molto più semplice dell'altra volta: gli impercettibili filamenti che trattengono l'anima al vostro corpo sono stati spezzati da poco e non hanno ancora avuto tempo di riallacciarsi. Le vostre volontà non frapporranno quell'ostacolo che l'istintiva resistenza del magnetizzato oppone al magnetizzatore. Il signor conte vorrà perdonare a un vecchio scienziato come me se non ha potuto resistere al piacere di effettuare un esperimento per il quale non si trovano molti soggetti, poiché in fin dei conti il tentativo è servito solo a confermare in modo inoppugnabile una virtù che spinge la sensibilità fino alla divinazione e trionfa laddove ogni altro avrebbe ceduto le armi. Potrà considerare questa passeggera trasformazione come un sogno bizzarro, e forse in seguito non le dispiacerà aver provato l'insolita sensazione che pochissimi uomini hanno conosciuto, di aver albergato in due corpi. La metempsicosi non è una scienza recente, ma prima di trasmigrare in un'altra esistenza le anime bevono alla coppa dell'oblio e non tutti possono ricordare, come Pitagora, di aver assistito alla guerra di Troia».


            «Il vantaggio di rientrare in possesso della mia individualità», rispose garbatamente il conte, «equivale alla contrarietà di esserne stato espropriato, e ciò sia detto senza voler offendere il signor Octave de Saville, quale sono tuttora e presto non sarò più».
            Octave sorrise con le labbra del conte Labinski a quella frase che gli giungeva solo attraverso un involucro estraneo, e il silenzio regnò fra i tre personaggi ai quali l'anomalia della situazione rendeva difficile ogni conversazione.
            Il povero Octave pensava alla sua speranza svanita, e i suoi pensieri, bisogna pure ammetterlo, non erano rosei. Come tutti gli amanti respinti si chiedeva perché non fosse amato come se l'amore avesse un perché! - La sola ragione che se ne possa dare è il perché no, risposta logica nella sua testarda laconicità, che le donne oppongono a tutte le domande imbarazzanti. Tuttavia si riconosceva vinto e sentiva che la molla vitale, per un istante ricaricata in lui dal dottor Cherbonneau, era di nuovo spezzata e gemeva nel suo cuore come quella di un orologio caduto a terra. Octave non avrebbe voluto dare alla madre il dolore del suo suicidio e cercava un posto dove spegnersi silenziosamente del suo male a cui la scienza ignara non era in grado di dare un nome plausibile. Se fosse stato pittore, poeta o musicista avrebbe cristallizzato il suo dolore in qualche capolavoro, e Prascovia, di bianco vestita, aureolata di stelle, simile alla Beatrice di Dante, avrebbe aleggiato sul suo estro creativo come un angelo luminoso. 



Ma come si è detto all'inizio della nostra storia, benché colto e raffinato, Octave non era uno di quegli spiriti eletti che lasciano traccia del loro passaggio su questa terra. Anima oscuramente sublime, non sapeva che amare e morire.
              La carrozza entrò nel cortile del vecchio edificio della Rue du Regard, dal cui selciato spuntava un'erba verde che portava l'impronta dei passi dei visitatori, e che gli alti muri grigi delle costruzioni inondavano di ombre fredde come quelle proiettate dalle arcate dei chiostri. Il Silenzio e l'Immobilità vegliavano sulla soglia come due statue invisibili per proteggere la meditazione del saggio.
         Dopo che Octave e il conte furono scesi, il dottore saltò giù dal predellino più agilmente di quanto fosse logico aspettarsi da una persona di età avanzata; rifiutando di appoggiarsi al braccio che il palafreniere gli offriva con quella cortesia che i lacché delle grandi famiglie ostentano nei confronti delle persone deboli e anziane.
             Appena la doppia porta si fu richiusa alle loro spalle, Olaf e Octave si sentirono avvolti dalla calda atmosfera che ricordava al dottore quella dell'India e nella quale solo lui riusciva a respirare, mentre appariva soffocante a chi non si fosse arrostito come lui al sole tropicale. Le incarnazioni di Visnù seguitavano a fare smorfie dalle loro cornici più bizzarre alla luce del sole che a quella artificiale. Siva, il dio azzurro sogghignava sul suo zoccolo, e Durga, mordendosi le labbra carnose con i suoi denti di cinghiale, sembrava scuotesse il suo rosario di teschi. L'appartamento aveva la stessa aria misteriosa e magica.




           














          
Il dottor Cherbonneau condusse i due uomini nella stanza dove era stata effettuata la prima trasformazione, fece girare il disco di vetro della macchina elettrica, agitò le asticciole di ferro della tinozza mesmerica, aprì le bocche dell'aria calda per far salire rapidamente la temperatura, lesse due o tre righe su papiri così antichi da far pensare a vecchie scorze sul punto di polverizzarsi, e dopo qualche minuto disse a Octave e al conte:
              «Signori, eccomi a voi. Volete cominciare?».
            Mentre il dottore era intento ai suoi preparativi, pensieri inquietanti passavano per la mente del conte.
            «Quando sarò addormentato, che farà della mia anima questo vecchio mago con la faccia di scimmia, che potrebbe anche essere il diavolo in persona? La restituirà al mio corpo o la porterà con sé all'inferno? Questo scambio che dovrebbe rendermi ciò che mi appartiene, non sarà magari un machiavellico espediente per operare una stregoneria di cui mi sfugge il senso? La mia situazione comunque non potrebbe certo peggiorare. Octave possiede il mio corpo, e come diceva giustamente stamani, e io lo rivendicassi con il mio viso di adesso, mi farei rinchiudere in manicomio. Se avesse voluto sbarazzarsi definitivamente di me, gli sarebbe bastato affondare la punta della spada: ero disarmato, alla sua mercé. La giustizia degli uomini non poteva intervenire: le formalità del duello erano state perfettamente rispettate e tutto si era svolto secondo le consuetudini. Suvvia! Pensiamo a Prascovia e niente terrori puerili! Facciamo ricorso all'ultimo mezzo che mi resta per riconquistarla!» E come Octave, prese l'asticella di ferro che il dottor Balthazar Cherbonneau gli porgeva.



            Folgorati dai conduttori metallici che contenevano abbondante fluido magnetico, i due giovani piombarono poco dopo in un stato di sopore così profondo che chiunque non fosse stato preavvertito li avrebbe creduti morti. Il dottore fece i gesti rituali, pronunciò le stesse sillabe della prima volta e subito dopo sopra Octave e il conte apparvero in un tremolio luminoso due piccole scintille: il dottore riportò nella sua primitiva dimora l'anima del conte Olaf Labinski. Con rapido volo essa seguì il gesto del magnetizzatore.



            Nel frattempo, l'anima di Octave si allontanava lentamente dal corpo di Olaf, e invece di raggiungere il suo, si innalzava, si innalzava come se fosse stata lieta di essere libera, e sembrava che non pensasse affatto a rientrare nella sua prigione.



            Il dottore ebbe pietà di quella Psiche dalle ali palpitanti e si chiese se fosse un bene riportarla verso questa valle di lacrime. In quell'attimo di esitazione, l'anima seguitò a salire. Ricordandosi del proprio compito, il signor Cherbonneau ripeté con accento più imperioso l'irresistibile monosillabo e fece un gesto fulminante per imporre il suo volere. Ma la piccola luce tremolante era già fuori dalla sua sfera d'attrazione e scomparve attraverso il vetro più alto della finestra.
            Il dottore rinunciò a ogni sforzo che sapeva superfluo e svegliò il conte. Questi vedendosi in uno specchio con quelli che erano sempre stati i suoi tratti, gridò di gioia, lanciò un'occhiata sul corpo sempre immobile di Octave come per assicurarsi che si era definitivamente liberato da quell'involucro, e si precipitò fuori dopo aver salutato il dottor Cherbonneau con un cenno della mano.
            Qualche istante dopo si udì nell'androne il sordo rotolio di una carrozza e il dottore rimase solo faccia a faccia con il cadavere di Octave de Saville.
            «Per la proboscide di Ganesa!», esclamò all'allievo del bramino di Elefanta quando il conte se ne fu andato. «Guarda un po' che incresciosa situazione! Ho aperto la porta della gabbia, l'uccello è volato via ed eccolo già fuori dalla sfera di questo mondo, così lontano che perfino il sannyasi Brahma-Logum non potrebbe riprenderlo. E intanto io resto con un cadavere sulle braccia. Posso anche dissolverlo in un bagno corrosivo così potente da non lasciarne nemmeno un atomo, oppure farne in poche ore una mummia di faraone come quelle rinchiuse nei sarcofagi decorati di geroglifici, ma poi comincerebbero a fare inchieste, a perquisirmi le casse, e io verrei sottoposto a mille seccanti interrogatori...».
            A questo punto, al dottore venne in mente un'idea luminosa: afferrò una penna e tracciò rapidamente alcune righe su un foglio di carta che poi chiuse nel cassetto del tavolo. Sul foglio c'era scritto:
            «Non avendo né parenti stretti né collaterali, lascio in eredità tutti i miei beni al signor Octave de Saville per il quale nutro un affetto particolare, a condizione che egli devolva un lascito di centomila franchi all'ospedale brahaminico di Ceylon per gli animali vecchi, deboli o malati, che assicuri una rendita vitalizia di milleduecento franchi al mio domestico indiano e al mio domestico inglese, che affidi alla biblioteca Mazarine il manoscritto delle leggi di Manù».
            Questo testamento di un vivo a favore di un morto non è certamente uno dei particolari meno curiosi della nostra storia reale, per quanto inverosimile appaia. Ma si tratta di una stranezza facilmente spiegabile.
            Il dottore toccò il corpo ancora caldo di Octave de Saville, con aria disgustata si guardò nello specchio il viso rugoso, scuro e ruvido come una pelle di zigrino, e mentre accennava su di sé il gesto con cui ci si sbarazza di un vecchio abito quando il sarto ne porta uno nuovo mormorò la formula del sannyasi Brahma-Logum.



            Immediatamente il corpo del dottor Balthazar Cherbonneau cadde come fulminato sul tappeto e quello di Octave de Saville si rialzò forte scattante, pieno di vita.
            Per qualche minuto Octave Cherbonneau rimase in piedi davanti a quella spoglia magra, ossuta e livida, che ormai svigorita e senz'anima mostrò in poco tempo i segni estremi della senilità, assumendo l'aspetto di un cadavere.



            «Addio, povero brandello umano, miserevole straccio con gomiti bucati e la trama lisa, che ho trascinato per settant'anni attraverso le cinque parti del globo! Mi hai servito a dovere e non ti lascio senza un certo rimpianto. Vivendo a lungo insieme, ci si abitua l'uno all'altro, ma con questo giovane involucro presto irrobustito dalla mia scienza, potrò studiare, lavorare, leggere ancora qualche parola del gran libro, senza che la morte la interrompa al paragrafo più interessante dicendo: "Ora basta"».
            Dopo aver rivolto a se stesso quest'orazione funebre, Octave-Cherbonneau uscì con passo tranquillo per andare a prender possesso della sua nuova esistenza.
            Nel frattempo il conte Olaf Labinki era tornato alla villa ed aveva subito fatto chiedere se la contessa poteva riceverlo.
            La trovò seduta su un sedile di muschio della serra in mezzo a un'autentica foresta di piante esotiche e tropicali. Le vetrate semisollevate lasciavano entrare un'aria tiepida e luminosa. Stava leggendo Novalis, uno degli scrittori più sottili, rarefatti e più immateriali che siano stati generati dallo spiritualismo tedesco. La contessa non amava i libri che descrivono la vita con toni violenti e realistici: la vita le sembrava qualcosa di un po' troppo volgare, a forza di vivere in un mondo fatto di eleganza, di amore e di poesia.




            Lasciò cadere il libro e sollevò lentamente lo sguardo verso il conte. Temeva di ritrovare negli occhi neri del marito quello sguardo ardente, tempestoso, carico di mistero che l'aveva turbata così penosamente e che le sembrava, folle apprensione idea stravagante, lo sguardo di un altro!
            Negli occhi di Olaf risplendeva una gioia serena, ardeva il fuoco tranquillo di un amore casto e puro; l'anima estranea che ne aveva cambiato l'espressione era volata via per sempre. Prascovia riconobbe senza esitare il suo adorato Olaf, le sue guance diafane si colorirono di un subitaneo rossore di gioia. Benché ignorasse le trasformazioni operate dal dottor Cherbonneau, la sua acuta sensibilità aveva intuito quei cambiamenti pur senza rendersene conto.
            «Che cosa stai leggendo, mia cara Prascovia?», chiese raccogliendo sul muschio il libro rilegato di marocchino azzurro. «Ah! La storia di Heinrich von Ofterdingen. Proprio il libro che sono andato a prenderti a spron battuto fino a Mohilev, un giorno in cui a tavola avevi espresso il desiderio di averlo. A mezzanotte era sul suo tavolino, accanto alla lampada. Perfino Ralph era ansimante!».

            
           «E io ti ho detto che mai più avrei espresso il benché minimo desiderio davanti a te. Tu sei come quel grande di Spagna che pregava la sua amante di non guardare le stelle perché non poteva offrirgliele».
            «Se tu ne guardassi una», rispose il conte, «tenterei di salire in cielo per andare a chiederla a Dio».
            Mentre ascoltava il marito, la contessa scostò una ciocca ribelle dei capelli che scintillava come una fiamma in un raggio d'oro. Il movimento aveva fatto scivolare la manica e denudato il bel braccio. Al polso scintillava la lucertola d'oro costellata di turchesi che portava il giorno fatale in cui Octave l'aveva vista alle Cascine.



            «Che paura ti fece una volta questa povera piccola lucertola che uccisi con un bastoncino, quando dietro le mie insistenti preghiere scendesti per la prima volta in giardino! Ne feci fare un braccialetto d'oro con qualche pietra, ma anche come gioiello continuava a inorridirti e ci volle del tempo perché tu ti risolvessi a portarlo».
            «Ora mi ci sono abituata ed è il gioiello che preferisco perché è legato a un ricordo molto caro».
            «Sì», riprese il conte, «quel giorno decidemmo che l'indomani avrei chiesto ufficialmente la tua mano a tua zia».
            La contessa, che ritrovava lo sguardo del vero Olaf, si alzò, rassicurata inoltre da tutti quei particolari intimi, gli sorrise, lo prese sotto braccio e insieme fecero qualche passo nella serra, strappando via via un fiore con la mano libera e mordendone i petali con le fresche labbra, come la Venere dello Schiavone che mangia le rose.
            «Visto che oggi hai così buona memoria», disse gettando il fiore che aveva strappato con i suoi denti di perla, «devi aver ritrovato anche l'uso della lingua materna... che ieri avevi dimenticato».
            «È quella che la mia anima parlerà in cielo per dirti che ti amo, se in paradiso le anime conservano un linguaggio umano!», rispose il conte in polacco.
            Continuando a camminare, Prascovia posò dolcemente il capo sulla spalla di Olaf.
            «Cuore mio», mormorò, «è così che ti amo. Ieri mi hai fatto paura, e ti ho fuggito come un estraneo».
            L'indomani Octave de Saville, in cui viveva lo spirito del vecchio dottore, ricevette una lettera listata a lutto, che lo pregava di assistere al servizio funebre e alla sepoltura del signor Balthazar Cherbonneau.



            Il dottore, sotto la sua nuova apparenza, seguì le proprie vecchie spoglie al cimitero, si vide seppellire, ascoltò con una compunzione molto ben simulata i discorsi pronunciati sulla sua fossa, che deploravano l'irreparabile perdita subita dalla scienza. Dopo di che tornò in rue Saint-Lazare e attese l'apertura del testamento che aveva scritto a proprio favore.
            Quello stesso giorno si leggeva fra i fatti di cronaca dei giornali della sera:
            «Il dottor Balthazar Cherbonneau, noto per i lunghi soggiorni in India, per le sue conoscenze filologiche e le sue stupefacenti terapie, ieri è stato trovato morto nel suo studio. Il minuzioso esame del corpo esclude totalmente l'idea di un delitto. Probabilmente il signor Cherbonneau è stato vittima di un eccessivo impegno intellettuale o di qualche audace esperimento. Da un testamento olografo scoperto nella sua scrivania, pare che il dottore abbia lasciato alla biblioteca Mazarine preziosissimi manoscritti e abbia nominato suo erede universale un giovane appartenente a una distinta famiglia, un certo signor Octave de Saville.

FINE

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AVATAR XI

 XI

            Due ore dopo quella scena, il falso conte ricevette da quello vero una lettera chiusa con il sigillo di Octave de Saville - il povero Olaf derubato di se stesso non ne aveva altri a disposizione. Aprire una missiva sigillata con il proprio stemma, fece un curioso effetto a colui che aveva usurpato l'identità di Olaf Labinski, ma in quella situazione anormale tutto doveva necessariamente apparire strano. Olaf non aveva l'abitudine di scrivere con le dita di Octave, e le parole erano quindi tracciate con mano impacciata e una scrittura che sembrava contraffatta:



            «Se questa lettera venisse letta da qualcuno che non fosse lei, sembrerebbe scritta dal manicomio, ma lei mi capirà. Un inspiegabile concorso di fatali circostanze, probabilmente mai verificatesi da quando la terra gira intorno al sole, mi costringe a fare qualcosa che nessun uomo ha mai fatto. Scrivo a me stesso e metto sull'indirizzo un nome che è il mio, un nome che lei mi ha rubato insieme alla mia persona. Ignoro di quali tenebrose macchinazioni io sia vittima, in quale spirale di infernali illusioni abbia messo piede, ma lei certamente lo sa. Questo segreto, se lei non è un vigliacco, la canna della mia pistola o della punta della mia spada glielo chiederanno su un terreno dove ogni uomo, sia esso onorato o infame, risponde alle domande che gli vengono poste. Domani, uno di noi due deve cessare di vedere la luce del sole. Questo vasto universo è ora troppo stretto per entrambi. Io ucciderò il mio corpo abitato dal suo spirito impostore, o sarà lei a uccidere il suo dove la mia anima si ribella a essere imprigionata. Non cerchi di farmi passare per pazzo: avrò la forza di controllarmi e dovunque mi capiterà di incontrarla la insulterò con l'urbanità di un gentiluomo, con il sangue freddo di un diplomatico. I baffi del signor conte Olaf Labinski dispiacciono magari al signor Octave de Saville, e ogni giorno ci si pestano i piedi uscendo dall'Opéra, ma io spero che, per quanto oscure le mie frasi non le risultino affatto ambigue e che i miei testimoni si mettano perfettamente d'accordo con i suoi circa l'ora, il luogo e le condizioni del duello».


                                        


La lettera lasciò Octave fortemente perplesso. Non poteva rifiutare la sfida del conte, ma gli ripugnava battersi con se stesso, perché aveva conservato una certa tenerezza per il suo vecchio involucro. L'idea di essere costretto a quel duello da un oltraggio clamoroso, fece sì che si decidesse ad accettare, benché, a rigore potesse far mettere al suo rivale la camicia di forza e renderlo così inoffensivo. Ma quell'atto di violenza ripugnava alla sua delicatezza d'animo. Se travolto da un'ineluttabile passione, aveva commesso un'azione riprovevole nascondendo l'amante sotto la maschera dello sposo, per trionfare su una virtù aliena da ogni seduzione, non era peraltro un uomo privo d'onore e di coraggio. Egli era d'altronde ricorso a quella soluzione estrema solo dopo tre anni di lotte e di sofferenze, allorché la vita, consumata dall'amore, stava per sfuggirgli. Non conosceva il conte, non era un suo amico: non gli doveva niente e aveva profittato del rischioso espediente offertogli dal dottor Balthazar Cherbonneau.
            Dove trovare i testimoni? Tra gli amici del conte, ovviamente, ma in una sola giornata Octave non era riuscito a incontrarli.
            Sul caminetto c'erano due coppe rotonde di porcellana venata color verde pallido, con i manici a forma di draghi d'oro. Una conteneva anelli, spille, timbri ed altri piccoli gioielli, l'altra dei biglietti da visita dove sotto corone di duchi, marchesi e conti, abili incisori avevano tracciato in caratteri gotici, rotondi, inglesi, tutta una serie di nomi polacchi, russi, ungheresi, tedeschi, italiani, spagnoli, chiara testimonianaza della vita errabonda del conte, che aveva amici in ogni paese.
            Octave ne prese due a caso: il conte Zamoieckzi e il marchese di Sepulveda. Diede ordine di preparare la carrozza e si recò da loro. Entrambi erano in casa. Non parvero sorpresi dalla richiesta di colui che credevano il conte Olaf Labinski. Totalmente privi di reazioni borghesi, non chiesero se si potesse giungere a un accordo e da perfetti gentiluomini tacquero educatamente sul motivo della lite.
            Dal canto suo il vero conte, o se preferite il falso Octave, si trovava in un analogo imbarazzo: si ricordò di Alfred Humbert e di Gustave Raimbaud, alla cui colazione aveva rifiutato di partecipare, e li convinse ad assisterlo in quel duello.
            I due giovani non mancarono di stupirsi dell'iniziativa del loro amico, che da un anno non era praticamente uscito di camera e di cui conoscevano l'animo più pacifico che battagliero. Ma quando ebbe spiegato che si trattava di un duello all'ultimo sangue per un motivo che non doveva essere rivelato, non fecero altre obiezioni e si recarono a villa Labinski.
            Le condizioni furono rapidamente stabilite. Poiché gli avversari avevano dichiarato che spada o pistola andavano ugualmente bene, l'arma fu scelta da una moneta gettata in aria. L'ora convenuta erano le sei del mattino, e il luogo l'avenue des Poteaux, al bois de Boulogne, dove nei pressi di un rustico capanno, c'era uno spazio aperto e sabbioso, arena ideale per quel genere di scontri.
            Quando tutto fu deciso, era quasi mezzanotte, e Octave si diresse verso l'appartamento di Prascovia. Il chiavistello della porta era tirato come la sera prima e la voce della contessa gli disse in tono canzonatorio:
            «Torna quando saprai il polacco: sono troppo patriota per accogliere uno straniero in camera mia!».
            La mattina, avvertito da Octave, arrivò il dottor Cherbonneau con l'astuccio degli strumenti chirurgici e un pacco di bende. Salirono insieme in carrozza. Il signor Zamoieckzi e il signor di Sepulveda seguivano nel loro coupé.
            «Allora, mio caro Octave», disse il dottore, «l'avventura volge già al tragico? Avrei dovuto lasciar dormire il conte nel suo corpo per almeno otto giorni. Ho già prolungato dei sonni magnetici oltre tale limite. Ma per quanto si sia studiata la saggezza presso i bramini, i pandit e i sannyasi indiani, si dimentica sempre qualcosa, e anche nel piano concepito con più cura finiscono sempre coll'esserci delle imperfezioni. Ma la contessa Prascovia come ha accolto il suo innamorato di Firenze sotto le nuove spoglie?».
            «Credo che mi abbia riconosciuto nonostante la mia metamorfosi», rispose Octave, «oppure è stato il suo angelo custode a suggerirle di non fidarsi di me. L'ho trovata casta, fredda e pura come la neve al polo. Sotto una forma amata, la sua anima sensibile ha certamente intuito un'anima estranea.  Glielo avevo detto io che non poteva far nulla per me: sono anche più infelice di quando è venuto a visitarmi la prima volta».
            «Chi è in grado di assegnare un limite alle facoltà dell'anima», disse pensosamente il dottor Cherbonneau, «soprattutto quando non la turba nessun pensiero terrestre, non la contamina il fango umano e si mantiene così come è uscita dalle mani del Creatore, nella luce e nella contemplazione dell'amore? Sì, ha ragione: l'ha riconosciuta. Il suo angelico pudore ha rabbrividito sotto lo sguardo del desiderio e istintivamente si è velato con le sue bianche ali. La compiango, mio povero Octave! Il suo male è proprio irrimedidabile. Se fossimo nel medioevo, le direi: entri in convento».
            «Ci ho pensato spesso», ammise Octave.
            Erano arrivati. La carrozza del falso Octave si trovava già nel luogo designato.



            In quell'ora mattutina il bosco aveva l'aspetto veramente pittoresco che i frequentatori di mondo gli fanno perdere durante la giornata. Era quel momento dell'estate in cui il sole non ha ancora avuto il tempo di incupire il verde del fogliame: le piante erano sfumate di fresche tinte trasparenti, lavate dalla rugiada notturna, ed emanavano un profumo di giovane vegetazione. In quel luogo gli alberi sono particolarmente belli dato che crescono su un terreno proprizio o sono i soli superstiti di un'antica piantagione. I loro tronchi vigorosi, coperti di muschio o di una lucida crosta argentata, si abbarbicano al suolo con radici nodose, protendono rami bizzarramente angolosi, e potrebbero benissimo servire da modello ai pittori e decoratori che vanno lontano a cercarne di meno interessanti. Alcuni uccelli che i rumori del giorno fanno tacere, cinguettavano allegramente tra le foglie. In tre balzi un coniglio attraversò furtivamente la sabbia del viale per andare a nascondersi nell'erba spaventato dal frastuono delle ruote.
            Tanta poesia della natura sorpresa en déshabillé passava ovviamente inosservata agli occhi dei due avversari e dei loro testimoni.
            La vista del dottor Cherbonneau non fece certo una gradevole impressione al conte Olaf Labinski, che però si riprese rapidamente.
            Misurate le spade, assegnati i posti, i duellanti si tolsero la giacca e si misero in guardia punta contro punta.



             I testimoni gridarono: «Cominciate!».
            In ogni duello, qualunque sia il furore degli avversari, c'è un momento di solenne immobilità: ognuno dei due studia in silenzio il nemico e predispone un piano, meditando l'attacco e preparandosi alla risposta. Dopo di che le spade si cercano, si provocano, si tastano, per così dire, senza dividersi: il tutto dura alcuni secondi, che paiono minuti, ore perfino, ai presenti ansiosi.
            Nel nostro caso le condizioni del duello, che agli spettatori apparivano normali, erano così insolite per i contendenti che essi restarono in guardia più a lungo del consueto. In effetti ciascuno dei due si trovava davanti il proprio corpo e doveva affondare la lama in una carne che il giorno prima gli apparteneva ancora. Non era semplice duello, ma una specie di suicidio non previsto, e benché entrambi fossero coraggiosi, Octave e il conte provavano un istintivo orrore trovandosi con la spada in mano di fronte ai loro fantasmi e pronti ad avventarsi su se stessi.
            I testimoni spazientiti stavano per gridare nuovamente: «Suvvia, signori, cominciate!», quando infine le facce delle lame si scontrarono.
            Alcuni fendenti furono prontamente parati da entrambe le parti.
            Il conte, grazie alla sua educazione militare, era un abile spadaccino e aveva tirato di spada con i più celebri maestri, ma se la teoria gli era ancora perfettamente familiare, per passare ai fatti non aveva più il braccio vigoroso abituato a mettere in difficoltà i Murid di Schamyl: a reggere la sua spada era la debole mano di Octave.
            Octave, invece, nel corpo del conte, si ritrovava un vigore mai conosciuto, e benché meno abile in teoria, riusciva sempre a tener lontana dal petto la spada che lo cercava.
            Invano Olaf tentava di raggiungere l'avversario arrischiando colpi audaci. Octave, più freddo e più deciso, sventava tutte le finte.
            Il conte cominciava a lasciarsi prendere dalla collera e il suo stile si faceva nervoso e disordinato. Anche a costo di rimanere Octave de Saville, voleva uccidere quel corpo impostore capace di trarre in inganno Prascovia, idea che suscitava in lui un'indicibile rabbia.
            A rischio di farsi trafiggere, tentò un colpo diritto per arrivare, attraverso il suo stesso corpo, all'anima e alla vita del rivale, ma la spada di Octave s'incrociò con la sua in un movimento così rapido, così secco, così irresistibile che l'arma, strappatagli di mano, schizzò in aria ricadendo qualche passo più lontano.
            La vita di Olaf era alla merce di Octave: bastava un affondo perché lo trafiggesse da parte a parte. Il viso del conte si contrasse, non per timore della morte, ma perché pensava che avrebbe lasciato la moglie a quel ladro di corpi, che niente ormai avrebbe potuto smascherare.
            Invece di profittare del proprio vantaggio, Octave gettò la spada e facendo cenno ai testimoni di non intervenire, si diresse verso il conte stupefatto, lo prese per il braccio e lo trascinò nel folto del bosco.


            «Che cosa vuole da me?», disse il conte. «Perché non uccidermi quando poteva farlo? Perché non continuare il duello dopo avermi lasciato riprendere la spada, se le ripugnava colpire un uomo inerme? Lei lo sa bene che il sole non deve proiettare insieme le nostre due ombre sulla sabbia e che la terra deve inghiottire uno di noi».
            «Mi ascolti con pazienza», rispose Octave. «La sua felicità è fra le mie mani. Posso conservare per sempre questo corpo nel quale oggi dimoro e che è legittimamente suo. Lo riconosco volentieri, ora che non abbiamo testimoni e possono sentirci solo gli uccelli che non andranno a ripeterlo. Se riprendiamo il duello, la ucciderò. Il conte Olaf Labinski, che rappresento come meglio posso è uno schermidore più bravo di Octave de Saville, in cui lei è adesso incarnato e che molto a malincuore sarò costretto a sopprimere. E questa morte, anche se non reale, giacché la mia anima sopravviverebbe, addolorerebbe mia madre».
            Riconoscendo la verità di quelle osservazioni, il conte non rispose e il suo silenzio parve una specie di assenso.
            Non riuscirà mai, se io mi oppongo, a tornare in possesso della sua personalità», seguitò Octave. «Del resto ha potuto vedere il risultato dei suoi due tentativi. Se ci provasse ancora, la prenderebbero per un monomaniaco. Nessuno crederà alle sue prove, e quando pretenderà di essere il conte Olaf Labinski tutti le rideranno in faccia, come ha già potuto constatare. La rinchiuderanno e lei passerà il resto della vita a sostenere, sotto le docce fredde, di essere effettivamente lo sposo della bella contessa Prascovia Labinska. Al sentirla, le anime compassionevoli diranno: "Quel povero Octave!". Sarà misconosciuto come lo Chabert di Balzac, che voleva dimostrare di non essere morto».


            La cosa era così matematicamente vera che il conte, prostrato, lasciò ricadere la testa sul petto.
            «Dato che per il momento è Octave de Saville, lei ha sicuramente frugato nei suoi cassetti, ha sfogliato le sue carte. E non ignora che da tre anni egli nutre per la contessa Prascovia Labinska un amore sconfinato, senza speranza, che ha vanamente tentato di strapparsi dal cuore e che finirà con la sua vita, ammesso che non lo segua nella tomba».
            «Sì, lo so», fece il conte mordendosi le labbra.
            «Ebbene, per conquistarla sono ricorso a un mezzo orribile, spaventoso giustificato solo da una passione delirante: il dottor Cherbonneau ha tentato per me qualcosa da scoraggiare taumaturghi di ogni paese e di ogni epoca. Dopo averci addormentati entrambi, magneticamente ha cambiato l'involucro delle nostre anime. Miracolo inutile! Ora le restituirò il suo corpo! Prascovia non mi ama. Nel corpo dello sposo ha riconosciuto l'anima dell'amante: sulla soglia della camera nuziale il suo sguardo si è fatto di ghiaccio come nel giardino di villa Salviati».
            La voce di Octave rivelava un tale tormento che il conte prestò fede alle sue parole».
            «Sono un innamorato», soggiunse Octave sorridendo, «e non un ladro, e poiché il solo bene che io abbia desiderato su questa terra non può appartenermi, non vedo perché dovrei tenermi i suoi titoli, i suoi castelli, le sue terre, il suo denaro, i suoi cavalli, le sue armi. Suvvia, mi dia il braccio, e con l'aria di chi si è riconciliato ringraziamo i testimoni, prendiamo con noi il dottor Cherbonneau e torniamo al laboratorio magico dal quale siamo usciti trasformati. Il vecchio bramino saprà ben disfare ciò che ha fatto».
            «Signori», disse Octave impersonando ancora per un po' il conte Olaf Labinski, «con il mio avversario ci siamo scambiati spiegazioni confidenziali che rendono inutile proseguire il duello. Tra gente dabbene, non c'è niente che chiarisca le idee come incrociare per un po' le spade».
            Il signor Zamoieczki e il signor Sepulveda risalirono nella loro carrozza, e altrettanto fecero Alfred Humbert e Gustave Raimbaud. Con andatura sostenuta il conte Olaf Labinski, Octave de Saville e il dottor Cherbonneau si diressero verso la rue du Regard.


(XI – Continua)

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Sunday, August 08, 2010

AVATAR X

X

Octave-Labinski scese seguendo il cameriere, dal momento che ignorava dove si trovasse la sala da pranzo di quella casa di cui doveva apparire il padrone.

La sala da pranzo era una grande stanza a pianterreno prospiciente il cortile. Il suo stile aveva la severa nobiltà di un castello o di un'abbazia. Il rivestimento delle pareti, di una quercia scura dai toni simmetrici che salivano fino al soffitto, dove travi sporgenti e scolpite formavano dei cassettoni esagonali dipinti di azzurro e adorni di leggeri arabeschi dorati. Sui pannelli, Philippe Rousseau aveva raffigurato le quattro stagioni, simbolizzate non da figure mitologiche, ma da nature morte tipiche di ogni stagione dell'anno. 




Scene di caccia di Jadin facevano da riscontro alle nature morte di Philippe Rousseau. Sopra ogni dipinto splendeva, come la piastra di uno scudo, un immenso piatto di Bernard Palissy o di Léonard di Limoges, di porcellana giapponese, di maiolica o di terracotta araba con tutti i colori dell'iride. Alle maioliche si alternavano trofei di cervi, corna di uri, mentre alle due estremità della sala si ergevano, alte come pale di chiese spagnole, delle grandi credenze, così riccamente lavorate da reggere il confronto con le migliori opere di Berruguete, di Cornejo Duque e di Verbruggen.

Sui ripiani sovrapposti brillava confusamente l'antica argenteria di famiglia dei Labinski, brocche con i manici a forma di chimera, saliere vecchio stile, nappi, coppe, pezzi da centro tavola modellati dalla bizzarra fantasia tedesca e degni del tesoro della Volta Verde di Dresda. Di fronte all'argenteria antica scintillavano i meravigliosi manufatti di orafi moderni, i capolavori di Wagner, di Duponchel, di Rudolphi, di Froment-Meurice; servizi da tè in argento dorato con le figurine di Feuchère e di Vechte, vassoi niellati, secchielli da champagne con i manici a forma di pampini e scene di baccanali in bassorilievo; scaldavivande eleganti come tripodi pompeiani. Per non parlare dei cristalli di Boemia, di oggetti di vetro veneziani di servizi di vecchia Sassonia o vecchia Sèvres.

Lungo le pareti c'erano sedie di quercia imbottite di cuoio verde, e sul tavolo dai piedi a forma di artigli d'aquila pioveva dal soffitto una luce uniforme e pura che filtrava dai vetri smerigliati del cassettone centrale, il cui bianco lattiginoso era incorniciato dal verde fogliame di una trasparente ghirlanda di vite.

Sul tavolo, apparecchiato alla russa, era gia disposta la frutta incorniciata di viole, e le pietanze attendevano i commensali sotto i coprivivande di metallo, lucenti come elmi di emiri. Un samovar moscovita lanciava un sibilante getto di vapore. Due camerieri in polpe e cravatta bianca stavano immobili e silenziosi dietro alle due poltrone che si fronteggiavano, perfetta immagine della funzione domestica.

Con una rapida occhiata Octave assimilò ogni particolare per non apparire disorientato davanti a tutti quegli oggetti che avrebbero dovuto essergli familiari.

Un leggero scivolare di passi sul pavimento, un fruscio di taffetà lo fecero voltare. La contessa Labinski si stava avvicinando e si sedette dopo avergli fatto un cenno amichevole.


Indossava una vestaglia di seta a quadri verdi e bianchi, guarnita da uno smerlo della stessa stoffa. Nessuno scultore greco avrebbe voluto cambiare la semplice ed elegante acconciatura dei biondi capelli raccolti in folte bande sulle tempie e attorcigliati sulla nuca come la voluta di un capitello ionico. Il suo incarnato appariva un po' meno roseo per le emozioni del giorno precedente e il sonno agitato della notte. Un impercettibile alone madreperlaceo circondava i suoi occhi, solitamente così calmi e puri. Aveva un'aria affaticata e languida, ma la sua bellezza, come ammorbidita da un qualcosa di umano, risultava ancor più penetrante: la dea si faceva donna ; l'angelo, ripiegando le ali, cessava di librarsi in alto.

Octave, ora più prudente, velò la fiamma dello sguardo e mascherò dietro un'aria indifferente la sua muta estasi.

La contessa allungò il piedino calzato di una pantofola di pelle mordorata sulla serica lana del tappeto, steso sotto il tavolo per proteggere dal freddo contatto col mosaico di marmo bianco e broccatello di Verona che pavimentava la sala da pranzo. Le spalle le fremettero leggermente come per un ultimo brivido di febbre. Fissando i begli occhi di un azzurro ghiaccio sul commensale che credeva suo marito, dopo che la luce del giorno aveva fatto svanire presentimenti e fantasmi notturni, gli disse con voce teneramente armoniosa, vezzosamente casta, una frase in polacco!!! Con il conte si serviva spesso della diletta lingua materna nei momenti di tenera intimità, specialmente in presenza dei domestici francesi ai quali era sconosciuta.

Il parigino Octave sapeva il latino, l'italiano, lo spagnolo e qualche parola d'inglese, ma come tutti i gallo-romani ignorava completamente le lingue slave. Se anche avesse voluto affrontarle, i cavalli di Frisia che difendono le rare vocali del polacco gliene avrebbero impedito l'accesso. A Firenze la contessa gli aveva sempre parlato in francese o in italiano, e non gli era mai venuto in mente di imparare la lingua in cui Mickiewicz ha quasi eguagliato Byron. Non si pensa mai a tutto.

All'udire quella frase, un fenomeno davvero singolare accadde nel cervello del conte abitato dall'io di Octave: seguendo condotti di un orecchio slavo, quei suoni estranei a un parigino raggiunsero il punto in cui solitamente li riceveva il cervello di Olaf per tradurli in pensieri, ed evocarono una sorta di memoria fisica. Il loro senso apparve confusamente a Octave: parole sepolte nelle circonvoluzioni cerebrali, in fondo ai segreti ripostigli dei ricordi, si presentarono ronzando, pronte a rispondere. Ma quelle vaghe reminiscenze, non entrando in comunicazione con la mente finirono presto col dissolversi e tutto si rifece opaco. Il povero innamorato era in un tremendo imbarazzo: rivestendo la pelle del conte Labinski non aveva pensato a quelle complicazioni, e si rese conto che rubando la forma di un altro ci si espone a penose disavventure.




Prascovia, stupita dal silenzio di Octave e credendo che non l'avesse sentita perché immerso in qualche fantasticheria, ripeté la frase lentamente e a voce più alta.

Pur udendo meglio il suono delle parole, il falso conte seguitava a non capirne il senso. Faceva quindi sforzi disperati per indovinarne almeno l'argomento, ma per chi non lo sapesse, le compatte lingue nordiche sono prive di ogni trasparenza, e se un francese può intuire quello che dice un'italiana, sentendo una polacca sarà praticamente sordo. Suo malgrado, un vivo rossore gli salì alle guance. Si morse le labbra, e per darsi un contegno tagliuzzò rabbiosamente il cibo che aveva nel piatto.

«Sembra proprio, mio caro signore», disse la contessa parlando in francese, «che non mi senta o non mi capisca...».

«Effettivamente questa dannata lingua è talmente difficile!» farfugliò Octave-Labinski, senza neanche sapere quello che stava dicendo.

«Difficile! Sì, forse, per uno straniero, ma per chi l'ha balbettata sulle ginocchia materne sgorga dalle labbra come un soffio vitale, come l'emanazione stessa del pensiero».

«Sì, certamente, ma ci sono momenti in cui mi sembra di non saperla più».

«Ma che cosa stai dicendo, Olaf? Ma come? Avresti dimenticato la lingua degli avi, la lingua della santa patria, la lingua che ti fa riconoscere i fratelli fra gli altri uomini, la lingua in cui mi hai detto per la prima volta che mi amavi!», soggiunse abbassando la voce.

«L'abitudine di servirmi di un altro idioma...» buttò lì Octave non sapendo più a che santo votarsi.

«Olaf», ribatté la contessa con tono di rimprovero, «vedo che Parigi ti ha fatto male. Avevo ragione a non voler venire. Chi avrebbe mai detto che quando il nobile conte Labinski fosse tornato nelle sue terre, sarebbe stato incapace di rispondere agli omaggi dei suoi vassalli?».

Il bel viso di Prascovia assunse un'espressione dolorosa; per la prima volta la tristezza velò d'ombra la sua angelica fronte. Quella singolare dimenticanza la feriva nel profondo dell'anima e le appariva quasi un tradimento.

Il resto della colazione si svolse in silenzio. Prascovia teneva il broncio a colui che credeva fosse il conte. Octave era sulle spine perché temeva altre domande alle quali non sarebbe stato in grado di rispondere.

La contessa si alzò e tornò ai suoi appartamenti.

Octave, rimasto sola giocava con il manico di un coltello che aveva voglia di piantarsi nel cuore, dato che la sua posizione era ormai divenuta intollerabile: aveva contato su una sorpresa e ora si ritrovava nei meandri senza uscita di un'esistenza che non conosceva. Appropriandosi del corpo del conte Labinski, gli avrebbe dovuto sottrarre anche tutte le conoscenze antecedenti, i ricordi d'infanzia, i mille particolari intimi che costituiscono l'io di un uomo, i rapporti tra la sua esistenza e quella degli altri. Ma per questo non sarebbe bastata tutta la scienza del dottor Balthazar Cherbonneau.

Che rabbia! Trovarsi in quel paradiso di cui osava appena guardare da lontano la soglia, abitare sotto lo stesso tetto di Prascovia, vederla, parlarle, baciarle la bella mano con le labbra stesse del marito, e non poter ingannare il suo celestiale pudore. Tradirsi a ogni istante per qualche inspiegabile stupidaggine!

«Era scritto lassù che Prascovia non mi avrebbe mai amato! Eppure ho fatto il più gran sacrificio a cui possa assoggettarsi l'orgoglio umano: ho rinunciato al mio io e ho accettato di profittare, sotto mentite spoglie, delle carezze destinate a un altro!»

Era a questo punto del suo soliloquio quando un groom gli si inchinò davanti con i segni del più profondo rispetto e gli chiese quale cavallo avrebbe montato quel giorno...

Dato che non riceveva risposta, il groom, spaventato dal proprio ardire, osò mormorare:

«Vultur o Rustem? Non sono più usciti da otto giorni».

«Rustem», rispose Octave-Labinski. Avrebbe potuto anche dire Vultur, ma la sua mente distratta aveva captato l'ultimo nome.

Indossò l'abito da cavallerizzo e si avviò verso il bois de Boulogne per calmare all'aria aperta il proprio nervosismo.

Rustem, stupendo animale di razza Nedji, che in un sacchetto orientale ricamato d'oro portava sul petto i suoi titoli di nobiltà risalenti ai primi anni dell'egira, non aveva bisogno di essere pungolato. Sembrava che capisse i pensieri del suo cavaliere e non appena ebbe lasciato il selciato per la terra battuta, partì come una freccia senza che Octave dovesse dar di sprone. Dopo due ore di una corsa sfrenata cavaliere e animale tornarono a casa, l'uno più calmo, l'altro con le froge rosse e fumanti.




Il sedicente conte entrò nel salotto dove si trovava la contessa, vestita di un abito di taffetà bianco tutto a gale fino all'altezza della vita, e un fiocco dietro l'orecchio: era giovedì; il giorno in cui restava in casa per ricevere le visite.




«Allora», gli disse con un leggiadro sorriso, giacché le sue belle labbra non potevano restare troppo a lungo imbronciate, «hai recuperato la memoria correndo per i viali del bosco?».

«Mio Dio, no, mia cara», rispose Octave-Labinski. «Ma devo confessarti una cosa».

«Non conosco forse in anticipo tutti i tuoi pensieri? O non siamo più trasparenti l'uno per l'altra?».

Ieri sono andato da quel medico di cui si parla tanto».





«Sì, il dottor Balthazar Cherbonneau, che ha soggiornato a lungo in India e da quel che si dice ha imparato dai bramini una quantità di segreti, gli uni più stupefacenti degli altri. Volevi che venissi con te, ma io non sono curiosa, perché so che mi ami ed è tutto quel che mi basta sapere».

Ha fatto davanti a me degli esperimenti così strani, ha operato tali prodigi che ne sono ancora turbato. È un uomo singolare, dotato di un potere irresistibile: mi ha fatto piombare in un sogno magnetico così profondo che svegliandomi non avevo più le stesse facoltà. Avevo perso la memoria di molte cose, il passato fluttuava in una nebbia confusa. Solo il mio amore per te era rimasto intatto».

«Hai fatto male, Olaf, a lasciarti influenzare da quell'uomo. Dio, che ha creato l'anima, ha il diritto di agire su di essa, ma se lo fa l'uomo, commette un'azione empia», disse la contessa Prascovia Labinska con tono grave. «Spero che tu non ci torni più e che quando ti dirò qualcosa di amabile in polacco, tu mi capisca come prima».

Durante la passeggiata a cavallo, Octave si era inventato la scusa del magnetismo per ovviare a tutte le topiche che avrebbe sicuramente accumulato nella sua nuova esistenza, ma i suoi guai non erano ancora finiti. Aprendo un battente della porta un domestico annunciò un visitatore:

«Il signor Octave de Saville».

Benché un giorno o l'altro si dovesse aspettare quell'incontro, a quelle semplici parole il vero Octave impallidì come se le trombe del giudizio gli fossero bruscamente risuonate all'orecchio. Dovette fare appello a tutto il suo coraggio e dirsi, per non vacillare, che il vantaggio era dalla sua parte. Istintivamente affondò le dita nella spalliera di un divanetto e riuscì così a mantenersi eretto, apparentemente deciso e tranquillo.

Il conte Olaf, sotto le sembianze di Octave, si avvicinò alla contessa e la salutò con un profondo inchino. La contessa fece le presentazioni: «Il signor conte Labinski... Il signor Octave de Saville...».

I due uomini si salutarono freddamente lanciandosi sguardi di fuoco attraverso l'impassibile maschera della cortesia mondana, sotto la quale si celano a volte atroci passioni.

Mi ha serbato rancore dall'epoca di Firenze, signor Octave», disse la contessa con voce amichevole e confidenziale, «e temevo di dover lasciare Parigi senza rivederla. A villa Salviati era più assiduo e potevo annoverarla fra i miei più fedeli visitatori».

«Sono stato in viaggio, signora, sono stato poco bene, addirittura malato», rispose con tono forzato il falso Octave, «e quando ho ricevuto il suo gentile invito mi sono chiesto se fosse il caso di approfittarne giacché non si deve mai essere egoisti e abusare dell'indulgenza che si è disposti ad avere per un noioso».

Annoiato, forse, noioso mai», ribatté la contessa. «Lei è sempre stato malinconico, ma uno dei vostri poeti non dice forse della malinconia: dopo l'ozio, è il migliore dei mali?».

È una voce diffusa da chi è felice per esimersi dal compiangere chi soffre», disse Olaf-de Saville.

La contessa lanciò uno sguardo indicibilmente dolce al conte? rinchiuso nella forma di Octave, come per farsi perdonare l'amore che gli aveva involontariamente ispirato.

Lei mi crede più frivola di quanto non sia. Ogni vero dolore suscita la mia pietà, e se non posso alleviarlo, so almeno compatirlo. L'avrei voluta felice, caro signor Octave. Ma perché si è rinchiuso nella tristezza, rifiutando ostinatamente la vita che le si offriva con quanto ha di bello, di seducente, oltre che con i suoi doveri? Perché ha rifiutato l'amicizia che le offrivo?».

Quelle frasi così semplici e sincere produssero sui due uomini una diversa impressione. Octave vi vedeva la conferma della sentenza emessa nel giardino Salviati da quella bella bocca mai deturpata dalla menzogna. Olaf vi constatava un'ulteriore prova dell'inalterabile virtù della donna, che solo un diabolico artificio poteva far soccombere. Fu così che nel vedere il proprio spettro piazzato in casa sua, abitato da un'altra anima, fu colto da un subitaneo furore e afferrò per la gola il falso conte.

Ladro, brigante, scellerato, rendimi il mio corpo!».

A quell'incredibile gesto, la contessa si attaccò al campanello e alcuni servitori portarono via il conte.

«Quel povero Octave è diventato pazzo!», disse Prascovia mentre trascinavano fuori Olaf che si dibatteva inutilmente.

«Sì», rispose il vero Octave, «pazzo d'amore! Contessa, lei è decisamente troppo bella!».



(X – Continua)

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