Friday, August 20, 2010

AVATAR XI

 XI

            Due ore dopo quella scena, il falso conte ricevette da quello vero una lettera chiusa con il sigillo di Octave de Saville - il povero Olaf derubato di se stesso non ne aveva altri a disposizione. Aprire una missiva sigillata con il proprio stemma, fece un curioso effetto a colui che aveva usurpato l'identità di Olaf Labinski, ma in quella situazione anormale tutto doveva necessariamente apparire strano. Olaf non aveva l'abitudine di scrivere con le dita di Octave, e le parole erano quindi tracciate con mano impacciata e una scrittura che sembrava contraffatta:



            «Se questa lettera venisse letta da qualcuno che non fosse lei, sembrerebbe scritta dal manicomio, ma lei mi capirà. Un inspiegabile concorso di fatali circostanze, probabilmente mai verificatesi da quando la terra gira intorno al sole, mi costringe a fare qualcosa che nessun uomo ha mai fatto. Scrivo a me stesso e metto sull'indirizzo un nome che è il mio, un nome che lei mi ha rubato insieme alla mia persona. Ignoro di quali tenebrose macchinazioni io sia vittima, in quale spirale di infernali illusioni abbia messo piede, ma lei certamente lo sa. Questo segreto, se lei non è un vigliacco, la canna della mia pistola o della punta della mia spada glielo chiederanno su un terreno dove ogni uomo, sia esso onorato o infame, risponde alle domande che gli vengono poste. Domani, uno di noi due deve cessare di vedere la luce del sole. Questo vasto universo è ora troppo stretto per entrambi. Io ucciderò il mio corpo abitato dal suo spirito impostore, o sarà lei a uccidere il suo dove la mia anima si ribella a essere imprigionata. Non cerchi di farmi passare per pazzo: avrò la forza di controllarmi e dovunque mi capiterà di incontrarla la insulterò con l'urbanità di un gentiluomo, con il sangue freddo di un diplomatico. I baffi del signor conte Olaf Labinski dispiacciono magari al signor Octave de Saville, e ogni giorno ci si pestano i piedi uscendo dall'Opéra, ma io spero che, per quanto oscure le mie frasi non le risultino affatto ambigue e che i miei testimoni si mettano perfettamente d'accordo con i suoi circa l'ora, il luogo e le condizioni del duello».


                                        


La lettera lasciò Octave fortemente perplesso. Non poteva rifiutare la sfida del conte, ma gli ripugnava battersi con se stesso, perché aveva conservato una certa tenerezza per il suo vecchio involucro. L'idea di essere costretto a quel duello da un oltraggio clamoroso, fece sì che si decidesse ad accettare, benché, a rigore potesse far mettere al suo rivale la camicia di forza e renderlo così inoffensivo. Ma quell'atto di violenza ripugnava alla sua delicatezza d'animo. Se travolto da un'ineluttabile passione, aveva commesso un'azione riprovevole nascondendo l'amante sotto la maschera dello sposo, per trionfare su una virtù aliena da ogni seduzione, non era peraltro un uomo privo d'onore e di coraggio. Egli era d'altronde ricorso a quella soluzione estrema solo dopo tre anni di lotte e di sofferenze, allorché la vita, consumata dall'amore, stava per sfuggirgli. Non conosceva il conte, non era un suo amico: non gli doveva niente e aveva profittato del rischioso espediente offertogli dal dottor Balthazar Cherbonneau.
            Dove trovare i testimoni? Tra gli amici del conte, ovviamente, ma in una sola giornata Octave non era riuscito a incontrarli.
            Sul caminetto c'erano due coppe rotonde di porcellana venata color verde pallido, con i manici a forma di draghi d'oro. Una conteneva anelli, spille, timbri ed altri piccoli gioielli, l'altra dei biglietti da visita dove sotto corone di duchi, marchesi e conti, abili incisori avevano tracciato in caratteri gotici, rotondi, inglesi, tutta una serie di nomi polacchi, russi, ungheresi, tedeschi, italiani, spagnoli, chiara testimonianaza della vita errabonda del conte, che aveva amici in ogni paese.
            Octave ne prese due a caso: il conte Zamoieckzi e il marchese di Sepulveda. Diede ordine di preparare la carrozza e si recò da loro. Entrambi erano in casa. Non parvero sorpresi dalla richiesta di colui che credevano il conte Olaf Labinski. Totalmente privi di reazioni borghesi, non chiesero se si potesse giungere a un accordo e da perfetti gentiluomini tacquero educatamente sul motivo della lite.
            Dal canto suo il vero conte, o se preferite il falso Octave, si trovava in un analogo imbarazzo: si ricordò di Alfred Humbert e di Gustave Raimbaud, alla cui colazione aveva rifiutato di partecipare, e li convinse ad assisterlo in quel duello.
            I due giovani non mancarono di stupirsi dell'iniziativa del loro amico, che da un anno non era praticamente uscito di camera e di cui conoscevano l'animo più pacifico che battagliero. Ma quando ebbe spiegato che si trattava di un duello all'ultimo sangue per un motivo che non doveva essere rivelato, non fecero altre obiezioni e si recarono a villa Labinski.
            Le condizioni furono rapidamente stabilite. Poiché gli avversari avevano dichiarato che spada o pistola andavano ugualmente bene, l'arma fu scelta da una moneta gettata in aria. L'ora convenuta erano le sei del mattino, e il luogo l'avenue des Poteaux, al bois de Boulogne, dove nei pressi di un rustico capanno, c'era uno spazio aperto e sabbioso, arena ideale per quel genere di scontri.
            Quando tutto fu deciso, era quasi mezzanotte, e Octave si diresse verso l'appartamento di Prascovia. Il chiavistello della porta era tirato come la sera prima e la voce della contessa gli disse in tono canzonatorio:
            «Torna quando saprai il polacco: sono troppo patriota per accogliere uno straniero in camera mia!».
            La mattina, avvertito da Octave, arrivò il dottor Cherbonneau con l'astuccio degli strumenti chirurgici e un pacco di bende. Salirono insieme in carrozza. Il signor Zamoieckzi e il signor di Sepulveda seguivano nel loro coupé.
            «Allora, mio caro Octave», disse il dottore, «l'avventura volge già al tragico? Avrei dovuto lasciar dormire il conte nel suo corpo per almeno otto giorni. Ho già prolungato dei sonni magnetici oltre tale limite. Ma per quanto si sia studiata la saggezza presso i bramini, i pandit e i sannyasi indiani, si dimentica sempre qualcosa, e anche nel piano concepito con più cura finiscono sempre coll'esserci delle imperfezioni. Ma la contessa Prascovia come ha accolto il suo innamorato di Firenze sotto le nuove spoglie?».
            «Credo che mi abbia riconosciuto nonostante la mia metamorfosi», rispose Octave, «oppure è stato il suo angelo custode a suggerirle di non fidarsi di me. L'ho trovata casta, fredda e pura come la neve al polo. Sotto una forma amata, la sua anima sensibile ha certamente intuito un'anima estranea.  Glielo avevo detto io che non poteva far nulla per me: sono anche più infelice di quando è venuto a visitarmi la prima volta».
            «Chi è in grado di assegnare un limite alle facoltà dell'anima», disse pensosamente il dottor Cherbonneau, «soprattutto quando non la turba nessun pensiero terrestre, non la contamina il fango umano e si mantiene così come è uscita dalle mani del Creatore, nella luce e nella contemplazione dell'amore? Sì, ha ragione: l'ha riconosciuta. Il suo angelico pudore ha rabbrividito sotto lo sguardo del desiderio e istintivamente si è velato con le sue bianche ali. La compiango, mio povero Octave! Il suo male è proprio irrimedidabile. Se fossimo nel medioevo, le direi: entri in convento».
            «Ci ho pensato spesso», ammise Octave.
            Erano arrivati. La carrozza del falso Octave si trovava già nel luogo designato.



            In quell'ora mattutina il bosco aveva l'aspetto veramente pittoresco che i frequentatori di mondo gli fanno perdere durante la giornata. Era quel momento dell'estate in cui il sole non ha ancora avuto il tempo di incupire il verde del fogliame: le piante erano sfumate di fresche tinte trasparenti, lavate dalla rugiada notturna, ed emanavano un profumo di giovane vegetazione. In quel luogo gli alberi sono particolarmente belli dato che crescono su un terreno proprizio o sono i soli superstiti di un'antica piantagione. I loro tronchi vigorosi, coperti di muschio o di una lucida crosta argentata, si abbarbicano al suolo con radici nodose, protendono rami bizzarramente angolosi, e potrebbero benissimo servire da modello ai pittori e decoratori che vanno lontano a cercarne di meno interessanti. Alcuni uccelli che i rumori del giorno fanno tacere, cinguettavano allegramente tra le foglie. In tre balzi un coniglio attraversò furtivamente la sabbia del viale per andare a nascondersi nell'erba spaventato dal frastuono delle ruote.
            Tanta poesia della natura sorpresa en déshabillé passava ovviamente inosservata agli occhi dei due avversari e dei loro testimoni.
            La vista del dottor Cherbonneau non fece certo una gradevole impressione al conte Olaf Labinski, che però si riprese rapidamente.
            Misurate le spade, assegnati i posti, i duellanti si tolsero la giacca e si misero in guardia punta contro punta.



             I testimoni gridarono: «Cominciate!».
            In ogni duello, qualunque sia il furore degli avversari, c'è un momento di solenne immobilità: ognuno dei due studia in silenzio il nemico e predispone un piano, meditando l'attacco e preparandosi alla risposta. Dopo di che le spade si cercano, si provocano, si tastano, per così dire, senza dividersi: il tutto dura alcuni secondi, che paiono minuti, ore perfino, ai presenti ansiosi.
            Nel nostro caso le condizioni del duello, che agli spettatori apparivano normali, erano così insolite per i contendenti che essi restarono in guardia più a lungo del consueto. In effetti ciascuno dei due si trovava davanti il proprio corpo e doveva affondare la lama in una carne che il giorno prima gli apparteneva ancora. Non era semplice duello, ma una specie di suicidio non previsto, e benché entrambi fossero coraggiosi, Octave e il conte provavano un istintivo orrore trovandosi con la spada in mano di fronte ai loro fantasmi e pronti ad avventarsi su se stessi.
            I testimoni spazientiti stavano per gridare nuovamente: «Suvvia, signori, cominciate!», quando infine le facce delle lame si scontrarono.
            Alcuni fendenti furono prontamente parati da entrambe le parti.
            Il conte, grazie alla sua educazione militare, era un abile spadaccino e aveva tirato di spada con i più celebri maestri, ma se la teoria gli era ancora perfettamente familiare, per passare ai fatti non aveva più il braccio vigoroso abituato a mettere in difficoltà i Murid di Schamyl: a reggere la sua spada era la debole mano di Octave.
            Octave, invece, nel corpo del conte, si ritrovava un vigore mai conosciuto, e benché meno abile in teoria, riusciva sempre a tener lontana dal petto la spada che lo cercava.
            Invano Olaf tentava di raggiungere l'avversario arrischiando colpi audaci. Octave, più freddo e più deciso, sventava tutte le finte.
            Il conte cominciava a lasciarsi prendere dalla collera e il suo stile si faceva nervoso e disordinato. Anche a costo di rimanere Octave de Saville, voleva uccidere quel corpo impostore capace di trarre in inganno Prascovia, idea che suscitava in lui un'indicibile rabbia.
            A rischio di farsi trafiggere, tentò un colpo diritto per arrivare, attraverso il suo stesso corpo, all'anima e alla vita del rivale, ma la spada di Octave s'incrociò con la sua in un movimento così rapido, così secco, così irresistibile che l'arma, strappatagli di mano, schizzò in aria ricadendo qualche passo più lontano.
            La vita di Olaf era alla merce di Octave: bastava un affondo perché lo trafiggesse da parte a parte. Il viso del conte si contrasse, non per timore della morte, ma perché pensava che avrebbe lasciato la moglie a quel ladro di corpi, che niente ormai avrebbe potuto smascherare.
            Invece di profittare del proprio vantaggio, Octave gettò la spada e facendo cenno ai testimoni di non intervenire, si diresse verso il conte stupefatto, lo prese per il braccio e lo trascinò nel folto del bosco.


            «Che cosa vuole da me?», disse il conte. «Perché non uccidermi quando poteva farlo? Perché non continuare il duello dopo avermi lasciato riprendere la spada, se le ripugnava colpire un uomo inerme? Lei lo sa bene che il sole non deve proiettare insieme le nostre due ombre sulla sabbia e che la terra deve inghiottire uno di noi».
            «Mi ascolti con pazienza», rispose Octave. «La sua felicità è fra le mie mani. Posso conservare per sempre questo corpo nel quale oggi dimoro e che è legittimamente suo. Lo riconosco volentieri, ora che non abbiamo testimoni e possono sentirci solo gli uccelli che non andranno a ripeterlo. Se riprendiamo il duello, la ucciderò. Il conte Olaf Labinski, che rappresento come meglio posso è uno schermidore più bravo di Octave de Saville, in cui lei è adesso incarnato e che molto a malincuore sarò costretto a sopprimere. E questa morte, anche se non reale, giacché la mia anima sopravviverebbe, addolorerebbe mia madre».
            Riconoscendo la verità di quelle osservazioni, il conte non rispose e il suo silenzio parve una specie di assenso.
            Non riuscirà mai, se io mi oppongo, a tornare in possesso della sua personalità», seguitò Octave. «Del resto ha potuto vedere il risultato dei suoi due tentativi. Se ci provasse ancora, la prenderebbero per un monomaniaco. Nessuno crederà alle sue prove, e quando pretenderà di essere il conte Olaf Labinski tutti le rideranno in faccia, come ha già potuto constatare. La rinchiuderanno e lei passerà il resto della vita a sostenere, sotto le docce fredde, di essere effettivamente lo sposo della bella contessa Prascovia Labinska. Al sentirla, le anime compassionevoli diranno: "Quel povero Octave!". Sarà misconosciuto come lo Chabert di Balzac, che voleva dimostrare di non essere morto».


            La cosa era così matematicamente vera che il conte, prostrato, lasciò ricadere la testa sul petto.
            «Dato che per il momento è Octave de Saville, lei ha sicuramente frugato nei suoi cassetti, ha sfogliato le sue carte. E non ignora che da tre anni egli nutre per la contessa Prascovia Labinska un amore sconfinato, senza speranza, che ha vanamente tentato di strapparsi dal cuore e che finirà con la sua vita, ammesso che non lo segua nella tomba».
            «Sì, lo so», fece il conte mordendosi le labbra.
            «Ebbene, per conquistarla sono ricorso a un mezzo orribile, spaventoso giustificato solo da una passione delirante: il dottor Cherbonneau ha tentato per me qualcosa da scoraggiare taumaturghi di ogni paese e di ogni epoca. Dopo averci addormentati entrambi, magneticamente ha cambiato l'involucro delle nostre anime. Miracolo inutile! Ora le restituirò il suo corpo! Prascovia non mi ama. Nel corpo dello sposo ha riconosciuto l'anima dell'amante: sulla soglia della camera nuziale il suo sguardo si è fatto di ghiaccio come nel giardino di villa Salviati».
            La voce di Octave rivelava un tale tormento che il conte prestò fede alle sue parole».
            «Sono un innamorato», soggiunse Octave sorridendo, «e non un ladro, e poiché il solo bene che io abbia desiderato su questa terra non può appartenermi, non vedo perché dovrei tenermi i suoi titoli, i suoi castelli, le sue terre, il suo denaro, i suoi cavalli, le sue armi. Suvvia, mi dia il braccio, e con l'aria di chi si è riconciliato ringraziamo i testimoni, prendiamo con noi il dottor Cherbonneau e torniamo al laboratorio magico dal quale siamo usciti trasformati. Il vecchio bramino saprà ben disfare ciò che ha fatto».
            «Signori», disse Octave impersonando ancora per un po' il conte Olaf Labinski, «con il mio avversario ci siamo scambiati spiegazioni confidenziali che rendono inutile proseguire il duello. Tra gente dabbene, non c'è niente che chiarisca le idee come incrociare per un po' le spade».
            Il signor Zamoieczki e il signor Sepulveda risalirono nella loro carrozza, e altrettanto fecero Alfred Humbert e Gustave Raimbaud. Con andatura sostenuta il conte Olaf Labinski, Octave de Saville e il dottor Cherbonneau si diressero verso la rue du Regard.


(XI – Continua)

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