X
Octave-Labinski scese seguendo il cameriere, dal momento che ignorava dove si trovasse la sala da pranzo di quella casa di cui doveva apparire il padrone.
La sala da pranzo era una grande stanza a pianterreno prospiciente il cortile. Il suo stile aveva la severa nobiltà di un castello o di un'abbazia. Il rivestimento delle pareti, di una quercia scura dai toni simmetrici che salivano fino al soffitto, dove travi sporgenti e scolpite formavano dei cassettoni esagonali dipinti di azzurro e adorni di leggeri arabeschi dorati. Sui pannelli, Philippe Rousseau aveva raffigurato le quattro stagioni, simbolizzate non da figure mitologiche, ma da nature morte tipiche di ogni stagione dell'anno.
Scene di caccia di Jadin facevano da riscontro alle nature morte di Philippe Rousseau. Sopra ogni dipinto splendeva, come la piastra di uno scudo, un immenso piatto di Bernard Palissy o di Léonard di Limoges, di porcellana giapponese, di maiolica o di terracotta araba con tutti i colori dell'iride. Alle maioliche si alternavano trofei di cervi, corna di uri, mentre alle due estremità della sala si ergevano, alte come pale di chiese spagnole, delle grandi credenze, così riccamente lavorate da reggere il confronto con le migliori opere di Berruguete, di Cornejo Duque e di Verbruggen. Sui ripiani sovrapposti brillava confusamente l'antica argenteria di famiglia dei Labinski, brocche con i manici a forma di chimera, saliere vecchio stile, nappi, coppe, pezzi da centro tavola modellati dalla bizzarra fantasia tedesca e degni del tesoro della Volta Verde di Dresda. Di fronte all'argenteria antica scintillavano i meravigliosi manufatti di orafi moderni, i capolavori di Wagner, di Duponchel, di Rudolphi, di Froment-Meurice; servizi da tè in argento dorato con le figurine di Feuchère e di Vechte, vassoi niellati, secchielli da champagne con i manici a forma di pampini e scene di baccanali in bassorilievo; scaldavivande eleganti come tripodi pompeiani. Per non parlare dei cristalli di Boemia, di oggetti di vetro veneziani di servizi di vecchia Sassonia o vecchia Sèvres.
Lungo le pareti c'erano sedie di quercia imbottite di cuoio verde, e sul tavolo dai piedi a forma di artigli d'aquila pioveva dal soffitto una luce uniforme e pura che filtrava dai vetri smerigliati del cassettone centrale, il cui bianco lattiginoso era incorniciato dal verde fogliame di una trasparente ghirlanda di vite.
Sul tavolo, apparecchiato alla russa, era gia disposta la frutta incorniciata di viole, e le pietanze attendevano i commensali sotto i coprivivande di metallo, lucenti come elmi di emiri. Un samovar moscovita lanciava un sibilante getto di vapore. Due camerieri in polpe e cravatta bianca stavano immobili e silenziosi dietro alle due poltrone che si fronteggiavano, perfetta immagine della funzione domestica.
Con una rapida occhiata Octave assimilò ogni particolare per non apparire disorientato davanti a tutti quegli oggetti che avrebbero dovuto essergli familiari.
Un leggero scivolare di passi sul pavimento, un fruscio di taffetà lo fecero voltare. La contessa Labinski si stava avvicinando e si sedette dopo avergli fatto un cenno amichevole.
Indossava una vestaglia di seta a quadri verdi e bianchi, guarnita da uno smerlo della stessa stoffa. Nessuno scultore greco avrebbe voluto cambiare la semplice ed elegante acconciatura dei biondi capelli raccolti in folte bande sulle tempie e attorcigliati sulla nuca come la voluta di un capitello ionico. Il suo incarnato appariva un po' meno roseo per le emozioni del giorno precedente e il sonno agitato della notte. Un impercettibile alone madreperlaceo circondava i suoi occhi, solitamente così calmi e puri. Aveva un'aria affaticata e languida, ma la sua bellezza, come ammorbidita da un qualcosa di umano, risultava ancor più penetrante: la dea si faceva donna ; l'angelo, ripiegando le ali, cessava di librarsi in alto. Octave, ora più prudente, velò la fiamma dello sguardo e mascherò dietro un'aria indifferente la sua muta estasi.
La contessa allungò il piedino calzato di una pantofola di pelle mordorata sulla serica lana del tappeto, steso sotto il tavolo per proteggere dal freddo contatto col mosaico di marmo bianco e broccatello di Verona che pavimentava la sala da pranzo. Le spalle le fremettero leggermente come per un ultimo brivido di febbre. Fissando i begli occhi di un azzurro ghiaccio sul commensale che credeva suo marito, dopo che la luce del giorno aveva fatto svanire presentimenti e fantasmi notturni, gli disse con voce teneramente armoniosa, vezzosamente casta, una frase in polacco!!! Con il conte si serviva spesso della diletta lingua materna nei momenti di tenera intimità, specialmente in presenza dei domestici francesi ai quali era sconosciuta.
Il parigino Octave sapeva il latino, l'italiano, lo spagnolo e qualche parola d'inglese, ma come tutti i gallo-romani ignorava completamente le lingue slave. Se anche avesse voluto affrontarle, i cavalli di Frisia che difendono le rare vocali del polacco gliene avrebbero impedito l'accesso. A Firenze la contessa gli aveva sempre parlato in francese o in italiano, e non gli era mai venuto in mente di imparare la lingua in cui Mickiewicz ha quasi eguagliato Byron. Non si pensa mai a tutto.
All'udire quella frase, un fenomeno davvero singolare accadde nel cervello del conte abitato dall'io di Octave: seguendo condotti di un orecchio slavo, quei suoni estranei a un parigino raggiunsero il punto in cui solitamente li riceveva il cervello di Olaf per tradurli in pensieri, ed evocarono una sorta di memoria fisica. Il loro senso apparve confusamente a Octave: parole sepolte nelle circonvoluzioni cerebrali, in fondo ai segreti ripostigli dei ricordi, si presentarono ronzando, pronte a rispondere. Ma quelle vaghe reminiscenze, non entrando in comunicazione con la mente finirono presto col dissolversi e tutto si rifece opaco. Il povero innamorato era in un tremendo imbarazzo: rivestendo la pelle del conte Labinski non aveva pensato a quelle complicazioni, e si rese conto che rubando la forma di un altro ci si espone a penose disavventure.
Prascovia, stupita dal silenzio di Octave e credendo che non l'avesse sentita perché immerso in qualche fantasticheria, ripeté la frase lentamente e a voce più alta.
Pur udendo meglio il suono delle parole, il falso conte seguitava a non capirne il senso. Faceva quindi sforzi disperati per indovinarne almeno l'argomento, ma per chi non lo sapesse, le compatte lingue nordiche sono prive di ogni trasparenza, e se un francese può intuire quello che dice un'italiana, sentendo una polacca sarà praticamente sordo. Suo malgrado, un vivo rossore gli salì alle guance. Si morse le labbra, e per darsi un contegno tagliuzzò rabbiosamente il cibo che aveva nel piatto.
«Sembra proprio, mio caro signore», disse la contessa parlando in francese, «che non mi senta o non mi capisca...».
«Effettivamente questa dannata lingua è talmente difficile!» farfugliò Octave-Labinski, senza neanche sapere quello che stava dicendo.
«Difficile! Sì, forse, per uno straniero, ma per chi l'ha balbettata sulle ginocchia materne sgorga dalle labbra come un soffio vitale, come l'emanazione stessa del pensiero».
«Sì, certamente, ma ci sono momenti in cui mi sembra di non saperla più».
«Ma che cosa stai dicendo, Olaf? Ma come? Avresti dimenticato la lingua degli avi, la lingua della santa patria, la lingua che ti fa riconoscere i fratelli fra gli altri uomini, la lingua in cui mi hai detto per la prima volta che mi amavi!», soggiunse abbassando la voce.
«L'abitudine di servirmi di un altro idioma...» buttò lì Octave non sapendo più a che santo votarsi.
«Olaf», ribatté la contessa con tono di rimprovero, «vedo che Parigi ti ha fatto male. Avevo ragione a non voler venire. Chi avrebbe mai detto che quando il nobile conte Labinski fosse tornato nelle sue terre, sarebbe stato incapace di rispondere agli omaggi dei suoi vassalli?».
Il bel viso di Prascovia assunse un'espressione dolorosa; per la prima volta la tristezza velò d'ombra la sua angelica fronte. Quella singolare dimenticanza la feriva nel profondo dell'anima e le appariva quasi un tradimento.
Il resto della colazione si svolse in silenzio. Prascovia teneva il broncio a colui che credeva fosse il conte. Octave era sulle spine perché temeva altre domande alle quali non sarebbe stato in grado di rispondere.
La contessa si alzò e tornò ai suoi appartamenti.
Octave, rimasto sola giocava con il manico di un coltello che aveva voglia di piantarsi nel cuore, dato che la sua posizione era ormai divenuta intollerabile: aveva contato su una sorpresa e ora si ritrovava nei meandri senza uscita di un'esistenza che non conosceva. Appropriandosi del corpo del conte Labinski, gli avrebbe dovuto sottrarre anche tutte le conoscenze antecedenti, i ricordi d'infanzia, i mille particolari intimi che costituiscono l'io di un uomo, i rapporti tra la sua esistenza e quella degli altri. Ma per questo non sarebbe bastata tutta la scienza del dottor Balthazar Cherbonneau.
Che rabbia! Trovarsi in quel paradiso di cui osava appena guardare da lontano la soglia, abitare sotto lo stesso tetto di Prascovia, vederla, parlarle, baciarle la bella mano con le labbra stesse del marito, e non poter ingannare il suo celestiale pudore. Tradirsi a ogni istante per qualche inspiegabile stupidaggine!
«Era scritto lassù che Prascovia non mi avrebbe mai amato! Eppure ho fatto il più gran sacrificio a cui possa assoggettarsi l'orgoglio umano: ho rinunciato al mio io e ho accettato di profittare, sotto mentite spoglie, delle carezze destinate a un altro!»
Era a questo punto del suo soliloquio quando un groom gli si inchinò davanti con i segni del più profondo rispetto e gli chiese quale cavallo avrebbe montato quel giorno...
Dato che non riceveva risposta, il groom, spaventato dal proprio ardire, osò mormorare:
«Vultur o Rustem? Non sono più usciti da otto giorni».
«Rustem», rispose Octave-Labinski. Avrebbe potuto anche dire Vultur, ma la sua mente distratta aveva captato l'ultimo nome.
Indossò l'abito da cavallerizzo e si avviò verso il bois de Boulogne per calmare all'aria aperta il proprio nervosismo.
Rustem, stupendo animale di razza Nedji, che in un sacchetto orientale ricamato d'oro portava sul petto i suoi titoli di nobiltà risalenti ai primi anni dell'egira, non aveva bisogno di essere pungolato. Sembrava che capisse i pensieri del suo cavaliere e non appena ebbe lasciato il selciato per la terra battuta, partì come una freccia senza che Octave dovesse dar di sprone. Dopo due ore di una corsa sfrenata cavaliere e animale tornarono a casa, l'uno più calmo, l'altro con le froge rosse e fumanti.
Il sedicente conte entrò nel salotto dove si trovava la contessa, vestita di un abito di taffetà bianco tutto a gale fino all'altezza della vita, e un fiocco dietro l'orecchio: era giovedì; il giorno in cui restava in casa per ricevere le visite.
«Allora», gli disse con un leggiadro sorriso, giacché le sue belle labbra non potevano restare troppo a lungo imbronciate, «hai recuperato la memoria correndo per i viali del bosco?».
«Mio Dio, no, mia cara», rispose Octave-Labinski. «Ma devo confessarti una cosa».
«Non conosco forse in anticipo tutti i tuoi pensieri? O non siamo più trasparenti l'uno per l'altra?».
Ieri sono andato da quel medico di cui si parla tanto».
«Sì, il dottor Balthazar Cherbonneau, che ha soggiornato a lungo in India e da quel che si dice ha imparato dai bramini una quantità di segreti, gli uni più stupefacenti degli altri. Volevi che venissi con te, ma io non sono curiosa, perché so che mi ami ed è tutto quel che mi basta sapere».
Ha fatto davanti a me degli esperimenti così strani, ha operato tali prodigi che ne sono ancora turbato. È un uomo singolare, dotato di un potere irresistibile: mi ha fatto piombare in un sogno magnetico così profondo che svegliandomi non avevo più le stesse facoltà. Avevo perso la memoria di molte cose, il passato fluttuava in una nebbia confusa. Solo il mio amore per te era rimasto intatto».
«Hai fatto male, Olaf, a lasciarti influenzare da quell'uomo. Dio, che ha creato l'anima, ha il diritto di agire su di essa, ma se lo fa l'uomo, commette un'azione empia», disse la contessa Prascovia Labinska con tono grave. «Spero che tu non ci torni più e che quando ti dirò qualcosa di amabile in polacco, tu mi capisca come prima».
Durante la passeggiata a cavallo, Octave si era inventato la scusa del magnetismo per ovviare a tutte le topiche che avrebbe sicuramente accumulato nella sua nuova esistenza, ma i suoi guai non erano ancora finiti. Aprendo un battente della porta un domestico annunciò un visitatore:
«Il signor Octave de Saville».
Benché un giorno o l'altro si dovesse aspettare quell'incontro, a quelle semplici parole il vero Octave impallidì come se le trombe del giudizio gli fossero bruscamente risuonate all'orecchio. Dovette fare appello a tutto il suo coraggio e dirsi, per non vacillare, che il vantaggio era dalla sua parte. Istintivamente affondò le dita nella spalliera di un divanetto e riuscì così a mantenersi eretto, apparentemente deciso e tranquillo.
Il conte Olaf, sotto le sembianze di Octave, si avvicinò alla contessa e la salutò con un profondo inchino. La contessa fece le presentazioni: «Il signor conte Labinski... Il signor Octave de Saville...».
I due uomini si salutarono freddamente lanciandosi sguardi di fuoco attraverso l'impassibile maschera della cortesia mondana, sotto la quale si celano a volte atroci passioni.
Mi ha serbato rancore dall'epoca di Firenze, signor Octave», disse la contessa con voce amichevole e confidenziale, «e temevo di dover lasciare Parigi senza rivederla. A villa Salviati era più assiduo e potevo annoverarla fra i miei più fedeli visitatori».
«Sono stato in viaggio, signora, sono stato poco bene, addirittura malato», rispose con tono forzato il falso Octave, «e quando ho ricevuto il suo gentile invito mi sono chiesto se fosse il caso di approfittarne giacché non si deve mai essere egoisti e abusare dell'indulgenza che si è disposti ad avere per un noioso».
Annoiato, forse, noioso mai», ribatté la contessa. «Lei è sempre stato malinconico, ma uno dei vostri poeti non dice forse della malinconia: dopo l'ozio, è il migliore dei mali?».
È una voce diffusa da chi è felice per esimersi dal compiangere chi soffre», disse Olaf-de Saville.
La contessa lanciò uno sguardo indicibilmente dolce al conte? rinchiuso nella forma di Octave, come per farsi perdonare l'amore che gli aveva involontariamente ispirato.
Lei mi crede più frivola di quanto non sia. Ogni vero dolore suscita la mia pietà, e se non posso alleviarlo, so almeno compatirlo. L'avrei voluta felice, caro signor Octave. Ma perché si è rinchiuso nella tristezza, rifiutando ostinatamente la vita che le si offriva con quanto ha di bello, di seducente, oltre che con i suoi doveri? Perché ha rifiutato l'amicizia che le offrivo?».
Quelle frasi così semplici e sincere produssero sui due uomini una diversa impressione. Octave vi vedeva la conferma della sentenza emessa nel giardino Salviati da quella bella bocca mai deturpata dalla menzogna. Olaf vi constatava un'ulteriore prova dell'inalterabile virtù della donna, che solo un diabolico artificio poteva far soccombere. Fu così che nel vedere il proprio spettro piazzato in casa sua, abitato da un'altra anima, fu colto da un subitaneo furore e afferrò per la gola il falso conte.
Ladro, brigante, scellerato, rendimi il mio corpo!».
A quell'incredibile gesto, la contessa si attaccò al campanello e alcuni servitori portarono via il conte.
«Quel povero Octave è diventato pazzo!», disse Prascovia mentre trascinavano fuori Olaf che si dibatteva inutilmente.
«Sì», rispose il vero Octave, «pazzo d'amore! Contessa, lei è decisamente troppo bella!».
(X – Continua)
0 Comments:
Post a Comment
<< Home