Sunday, May 02, 2010

AVATAR II

II

«Nel 184... mi trovavo a Firenze sul finire dell'estate, la stagione più bella per visitarla. Avevo tempo, denaro, le giuste lettere di raccomandazione, e a quell'epoca ero un giovane d'indole allegra che non chiedeva di meglio che divertirsi.

Mi stabilii sul Lungarno, noleggiai una carrozza e mi abbandonai a quella dolce vita fiorentina, cosi suggestiva per uno straniero.



La mattina visitavo tranquillamente qualche chiesa, qualche museo, ma senza affannarmi. Non volevo fare quell'indigestione di capolavori che in Italia fa venire la nausea dell'arte al turista troppo zelante. Ora andavo a guardare le porte di bronzo del Battistero, ora il Perseo del Cellini alla Loggia dei Lanzi, il ritratto della Fornarina agli Uffizi, oppure la Venere del Canova a palazzo Pitti, mai comunque più di un'opera alla volta. Poi facevo colazione da Doney con un sorbetto al caffè, fumavo qualche sigaro, scorrevo i giornali e infine tornavo in albergo per la siesta con un fiore all'occhiello datomi, per amore o per forza, dalle belle fioraie con i grandi cappelli di paglia che sostano davanti al caffè. Alle tre la carrozza veniva a prendermi per portarmi alle Cascine.



Le Cascine rappresentano a Firenze quello che il Bois de Boulogne rappresenta a Parigi, con la differenza che tutti si conoscono e la rotonda è come un salotto all'aperto dove al posto delle poltrone ci sono le carrozze disposte a semicerchio.


Le donne, elegantemente vestite, semisdraiate sui cuscini ricevono la visita di amanti e vagheggini, di dandy e di addetti alle legazioni che stanno in piedi sul predellino con il cappello in mano. Ma lei sa tutte queste cose meglio di me. È lì che si fanno progetti per la serata, si fissano gli appuntamenti, si danno le risposte, si accettano gli inviti: è come una Borsa del piacere che dura dalle tre alle cinque, all'ombra di begli alberi, sotto il cielo più dolce del mondo. Per chi appartiene a una certa classe sociale è obbligatorio fare ogni giorno una capatina alle Cascine. Io ben mi guardavo dal mancare e la sera, dopo cena, frequentavo qualche salotto, o la Pergola, se la cantante lo meritava.

Passai così uno dei mesi più felici della mia vita. Ma quella felicità non doveva durare.



Un giorno fece la sua comparsa alle Cascine una magnifica carrozza. Quella splendida creazione viennese dalla vernice scintillante, capolavoro di Laurenzi, con uno stemma quasi regale, aveva la più bella pariglia di cavalli che abbia mai scalpitato a Hyde Park o a Saint James al Drawing Room della regina Victoria. Era guidata alla Daumont, in modo perfetto, da un giovanissimo jockey in calzoni di pelle bianca e casacca verde. L'ottone dei finimenti, il coprimozzo delle ruote, le maniglie delle portiere brillavano al sole come l'oro. Tutti gli sguardi seguivano lo splendido equipaggio che dopo aver descritto una curva regolare come se fosse stata tracciata con il compasso, andò a fermarsi accanto alle altre carrozze. Come lei può ben immaginare, non era una carrozza vuota, ma la velocità a cui andava aveva permesso di distinguere solo una punta di stivaletto allungato sul cuscino davanti, l'ampia piega di uno scialle e l'aureola di un parasole frangiato di seta bianca. Il parasole si richiuse e si vide allora risplendere una donna di una bellezza incomparabile. Io ero a cavallo e potei avvicinarmi abbastanza per non perdermi nessun particolare di quel capolavoro umano.


La forestiera portava un vestito verde acqua di quella lucentezza argentea che fa sembrare nere come talpe le donne che non abbiano un incarnato perfetto: un'insolenza di bionda sicura di sé. Il viso era aureolato da un cappello di finissima paglia di Firenze, adorno di miosotis e di delicate piante acquatiche dalle strette foglie glauche. Unico gioiello, una lucertola d'oro tempestata di turchesi al braccio che reggeva il manico d'avorio del parasole.

Perdoni, caro dottore, questa descrizione da giornale di moda a un innamorato per il quale ogni piccolo ricordo assume un'importanza enorme. Folti capelli biondi e inanellati scendevano come onde di luce ai lati di una fronte più bianca e più pura della neve vergine caduta durante la notte sulla più alta vetta delle Alpi; ciglia lunghe e sottili simili ai fili d'oro che aureolano gli angeli dei miniaturisti medioevali, velavano in parte le pupille verdi azzurre come certe luci che il sole fa balenare sui ghiacciai. La bocca, stupendamente disegnata, era di quel color porpora che ombreggia le valve delle conchiglie di Venere, e le guance ricordavano le timide rose bianche alle quali basta per arrossire la dichiarazione di un usignolo o il bacio di una farfalla.

Nessun pennello umano saprebbe rendere quell'incarnato di una soavità, di una freschezza, di una trasparenza immateriali, i cui colori non sembravano dovuti al sangue volgare che arrossa le nostre fibre. A darne una vaga idea potrebbero essere i primi rosei bagliori dell'aurora sulla cima della Sierra Nevada, la tonalità carnicina di certe camelie bianche nella parte inferiore del petalo, il marmo di Paro, intravisto attraverso un velo rosa.

Vaghi riflessi opalini iridavano il profilo di quella parte del collo che si scorgeva tra i nastri del cappello e lo scialle. Come nei bei dipinti della scuola veneziana, in un primo momento si era colpiti non tanto dalla linea di quella mirabile testa quanto dalle sue tinte, anche se i tratti erano puri e delicati come quelli dei profili antichi incisi sull'agata dei cammei.

Come Romeo dimenticò Rosalinda alla vista di Giulietta, io dimenticai i miei passati amori all'apparire di quella divina bellezza. Le pagine del mio cuore si rifecero bianche: ogni nome, ogni ricordo scomparve. Non capivo come avessi potuto lasciarmi attrarre dalle basse relazioni che pochi giovani sanno evitare e me le rimproverai come colpevoli infedeltà. Da quel fatale incontro ebbe inizio per me una vita nuova.

La carrozza lasciò le Cascine e si riavviò verso la città portandosi via la splendente visione. Misi il cavallo accanto a quello di un giovane russo molto cortese, grande frequentatore di stazioni termali e dei salotti cosmopoliti di tutta Europa. Poiché conosceva benissimo i personaggi itineranti dell'alta società, portai il discorso sulla straniera e venni a sapere che si trattava della contessa Prascovia Labinska, una lituana di illustri natali e di grande ricchezza, il cui marito era impegnato da due anni nella guerra del Caucaso.

Inutile dirle a quali arti diplomatiche dovetti ricorrere per essere ricevuto dalla contessa, che in assenza del conte era poco propensa a fare nuove conoscenze. Finalmente vi riuscii quando la specchiata virtù di due vecchie principesse e di quattro baronesse senza età si fece garante per me.

La contessa Labinska aveva preso in affitto una magnifica villa che era stata dei Salviati, a una mezza lega da Firenze, e in pochi giorni era riuscita a dotarla di tutte le comodità moderne senza minimamente alterarne la severa bellezza e la composta eleganza. Grandi portiere stemmate pendevano, armoniosamente dalle arcate ogivali; poltrone e mobili di stile antico si intonavano alle pareti rivestite di legno scuro o di affreschi dai toni smorzati e sbiaditi come quelli dei vecchi arazzi: nessun colore troppo audace, nessuna doratura troppo brillante offendeva lo sguardo, e il presente non strideva con il passato. La contessa aveva talmente l'aria di una castellana che la vecchia villa sembrava fatta apposta per lei.

Se la radiosa bellezza della contessa mi aveva sedotto, ancor più mi sedusse, dopo qualche visita, la sua intelligenza così rara, così sottile, così ricca: quando parlava di un argomento interessante, l'anima, se così può dirsi, le affiorava alla pelle, diventando visibile. Il suo bianco incarnato risplendeva dall'interno come l'alabastro di una lampada, accendendosi di quello scintillio fosforescente, di quei fremiti luminosi di cui parla Dante quando descrive gli splendori del paradiso. Pareva un angelo che si stagli nitidamente contro il sole.

Immerso nella contemplazione della sua bellezza, rapito dal suono della sua voce celestiale che trasformava ogni idioma in una musica ineffabile, quando ero costretto a rispondere balbettavo qualche parola incoerente che doveva darle un'idea ben meschina della mia intelligenza. A volte, davanti a certe mie frasi che denotavano un profondo turbamento o un irrimediabile stupidità, vedevo sulle sue belle labbra accendersi il roseo bagliore di un sorriso amichevolmente ironico.

Non le avevo detto ancora niente del mio amore: al suo cospetto mi svanivano idee, forza, coraggio. Il cuore mi batteva come se volesse uscire dal petto e gettarsi sulle ginocchia della sua sovrana. Venti volte avevo deciso di parlare, ma mi tratteneva un'invincibile timidezza: bastava che la contessa assumesse un'aria leggermente fredda o riservata per cadere in preda a mortali angosce, simili a quelle del condannato che con la testa sul ceppo attende il balenio dell'ascia che gli taglierà il collo. Contrazioni nervose mi soffocavano, sudori gelidi mi inondavano il corpo. Arrossivo, impallidivo e uscivo senza aver detto niente, riuscendo a fatica a trovare la porta e vacillando come un uomo ebbro sui gradini della scala.

Quando ero fuori ritrovavo le mie facoltà e lanciavo al vento i più focosi ditirambi. Rivolgevo all'idolo assente mille dichiarazioni di irresistibile eloquenza. In quelle mute apostrofi; eguagliavo i grandi poeti dell’amore. Il Cantico dei Cantici di Salomone con il suo vertiginoso profumo d'oriente e il suo lirismo allucinato da hascisc, i sonetti del Petrarca con le loro sottigliezze platoniche e le eterne delicatezze, l'Intermezzo di Heine con la sua sensibilità nervosa e delirante, sono ben lontani da quelle inesauribili effusioni dell'anima in cui si consumava la mia vita.

Alla fine di ogni monologo mi sembrava che la contessa ormai vinta dovesse scendere dal cielo sul mio cuore, e più di una volta ho incrociato le braccia sul petto credendo di avvincerla a me.

Ero a tal punto in sua balia che passavo ore a mormorare Prascovia Labinska come un'amorosa litania, trovando un'indefinibile suggestione in quelle sillabe che a volte sgranavo lentamente come perle, a volte pronunciavo febbrilmente come il devoto esaltato dalla sua stessa preghiera.

Accadeva anche che tracciassi il nome adorato su finissime pergamene con ricercatezze calligrafiche da manoscritti medioevali, lumeggiature d'oro, fregi azzurri, arabeschi verdi. A quel lavoro minuziosamente appassionato e puerilmente perfetto consacravo le lunghe ore che mi separavano dalle visite alla contessa. Non riuscivo a leggere ne a occuparmi d'altro. Al di fuori di Prascovia non c'era più niente che mi interessasse e non aprivo neanche più le lettere che mi arrivavano dalla Francia. Mi sforzai a più riprese di uscire da quello stato; cercai di ricordarmi quali fossero per i giovani come me gli assiomi che sono alla base dell'arte del sedurre, gli stratagemmi dei Valmont del Café de Paris e dei don Giovanni del Jockey Club, ma al momento di metterli in pratica me ne mancava il coraggio e mi rammaricavo di non possedere, come il Julien Sorel di Stendhal, un pacchetto di lettere per la contessa da copiare in ordine progressivo. Mi contentavo di amare donandomi totalmente senza chiedere nulla in cambio, senza una sia pur remota speranza, giacché nei miei sogni più audaci osavo appena sfiorare con le labbra la punta delle rosee dita di Prascovia. Nel quindicesimo secolo, il giovane novizio con la fronte sui gradini dell'altare, il cavaliere inginocchiato nella sua rigida armatura non dovevano avere per la madonna un'adorazione più prona».

Il signor Cherbonneau aveva ascoltato Octave con profonda attenzione, dato che per lui il racconto del giovane non rappresentava soltanto una storia romantica. Durante una pausa del narratore disse come fra sé: «Sì, questo è un vero caso di amore-passione, una strana malattia che mi è capitato di diagnosticare una sola volta, a Chendernagor, in una giovane paria innamorata di un bramino. Ne morì, povera ragazza, ma era un essere selvatico, mentre lei, signor Octave, è un uomo civile, e noi la guariremo». Chiusa la parentesi, con la mano fece cenno al signor de Saville di continuare, e ripiegando la gamba sulla coscia come la zampa articolata di una cavalletta, si sostenne il mento con il ginocchio e rimase in quella posizione che per chiunque altro sarebbe stata impossibile, ma che per lui sembrava particolarmente comoda.

«Non voglio annoiarla con i particolari dei miei segreti tormenti», seguitò Octave, «e passo quindi a una scena conclusiva. Un giorno, non riuscendo più a controllare l'imperioso desiderio di vedere la contessa, anticipai l'ora della solita visita. Il tempo era afoso e minacciava temporale. Non trovai la signora Labinska in salotto. Si era seduta sotto un porticato sorretto da snelle colonne, aperto su una terrazza da cui si accedeva al giardino. Vi aveva fatto portare il pianoforte, un divano e delle sedie di vimini. C'erano inoltre delle giardiniere traboccanti di splendidi fiori - da nessun'altra parte sono freschi e profumati come a Firenze - che riempivano gli spazi tra le colonne e con la loro fragranza impregnavano le rare folate di brezza provenienti dall'Appennino. Attraverso le arcate si scorgevano le siepi di bosso e di tasso del giardino disseminato di svettanti cipressi centenari e di marmoree figure mitologiche in cui si rifletteva lo stile tormentato di Baccio Bandinelli e dell'Ammannati. Sullo sfondo, il profilo di Firenze dominato dalla cupola di Santa Maria del Fiore e la geometrica torre di Palazzo Vecchio.

La contessa era sola, semisdraiata sul divano di vimini. Mai mi era parsa così bella: il corpo mollemente abbandonato, illanguidito dal caldo, era immerso come quello di una ninfa marina nella bianca spuma di un'ampia vestaglia di mussola indiana che aveva un bordo increspato come la frangia argentea di un'onda. Una spilla di acciaio niellato del Khorassan chiudeva sul petto l'abito leggero come il tessuto che volteggia intorno alla Vittoria intenta ad allacciarsi il sandalo. Dalle maniche aperte a partire dal gomito uscivano come i pistilli dal calice di un fiore le braccia più pure dell'alabastro che serve agli scultori fiorentini per le loro copie di statue antiche. Un alto nastro nero, annodato in vita, spiccava su tutto quel bianco. Quel che di triste poteva esserci in un contrasto di colori tipico del lutto, era rischiarato dalla punta di una ciabattina circassa di pelle azzurra, arabescata di giallo, che spuntava dall'ultima piega della mussola.


I capelli biondi della contessa, le cui onde si gonfiavano come sollevate da un soffio, lasciavano scoperta la fronte pura, e le tempie trasparenti formavano come un'aureola dove la luce accendeva scintille d'oro.

Accanto a lei, su una sedia dove giacevano inutilizzati un paio di guanti scamosciati, palpitava al vento un gran cappello di paglia di riso ornato di lunghi nastri neri come quelli del vestito.

Al mio apparire Prascovia chiuse il libro che stava leggendo - le poesie di Mickiewicz - e mi fece con il capo un leggero cenno di benvenuto. Era sola, circostanza favorevole e rara. Mi sedetti di fronte a lei sulla poltrona che mi aveva additato. Per qualche minuto regnò tra noi uno di quei silenzi che, protraendosi, si fanno penosi. Non mi veniva in mente neanche il più banale argomento di conversazione, la testa mi si confondeva, ondate ardenti mi salivano dal cuore al viso e intanto il mio amore gridava: "Non perdere quest'occasione suprema".

Non so che cosa avrei fatto se la contessa, intuendo la causa del mio turbamento, non si fosse leggermente sollevata tendendo verso di me la sua bella mano come per chiudermi la bocca.

"Non dica una sola parola, Octave; lei mi ama, lo so, lo sento, lo credo. Non gliene voglio, perché l'amore è involontario. Altre donne, più severe, si mostrerebbero offese. Io invece la compiango perché non posso amarla, ed è triste per me essere la causa della sua infelicità. Mi dispiace che mi abbia incontrata e maledico il capriccio che mi ha fatto lasciare Venezia per Firenze. In un primo momento ho sperato che la mia ostinata freddezza finisse per stancarla e allontanarla da me, ma nulla sgomenta il vero amore, e io ne vedo tutti i segni nei suoi occhi. La mia amabilità non faccia nascere in lei nessuna illusione, non la induca a sognare. Non scambi la mia pietà per un incoraggiamento. Un angelo dallo scudo di diamante e dalla spada fiammeggiante mi protegge da ogni lusinga più della religione, più del dovere, più della virtù: quest'angelo è il mio amore. Io adoro il conte Labinski. Ho la fortuna di aver trovato la passione nel matrimonio".

A quella confessione così franca, così leale e così nobilmente pudica, un fiotto di lacrime mi sgorgò dagli occhi e sentii che dentro di me si spezzava la molla della vita.

Prascovia, commossa, si alzò e in un moto di pietà femminile, pieno di grazia, mi asciugò gli occhi con il suo fazzoletto di batista.

"Suvvia, non pianga", mi disse, "glielo proibisco. Cerchi di pensare ad altro, pensi magari che io sia partita per sempre, che sia morta. Mi dimentichi. Viaggi, lavori, faccia del bene, si lasci coinvolgere dalla vita, si consoli con un'arte o un amore..."

Feci un gesto di diniego.

"Crede di soffrire meno seguitando a vedermi?" riprese la contessa. "Venga pure, sarò sempre pronta ad accoglierla. Dio dice che si devono perdonare i propri nemici: perché riservare un trattamento peggiore a chi ci ama? La lontananza mi sembra però un rimedio più sicuro. Tra due anni potremo stringerci la mano senza pericolo... per lei", soggiunse cercando di sorridere.

L'indomani lasciai Firenze, ma né lo studio né i viaggi né il tempo hanno fatto diminuire la mia sofferenza. Sento che sto morendo: non me lo impedisca, dottore».

«Ha rivisto la contessa Prascovia Labinska?», chiese il dottore i cui occhi azzurri scintillavano stranamente.

«No», rispose Octave, «ma è a Parigi». E tese al dottor Cherbonneau un biglietto sul quale era stampato:

«La contessa Labinska riceve il giovedì».

(II - Continua)

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