Monday, February 08, 2010

RICORDO CON RABBIA

(V)

Quando iniziai le scuole superiori, la mia angoscia crebbe. Ogni giorno mi scontravo con la disinvolta, artificiosa vitalità dei miei compagni, con l’ambiente umano, a me estraneo e ostile cui muovevo una guerra silenziosa. Rimanevo aggrappato al mio moralismo, ai rigori, alle mortificazioni medievali, per paura di contaminarmi, perché tutto era peccato, eccesso e sregolatezza.

E poi i miei turbamenti sessuali, di cui avevo vergogna e cercavo di soffocare come potevo. Con le ragazze era un vero disastro, non sapevo cosa fare, scappavo via, evitavo qualunque contatto e del resto non avrei potuto neppure immaginare un rapporto con una persona dell’altro sesso, perché mi sentivo un mostro: io, la cupa Bestia senza speranza, lei la Bella soave, disinvolta, inarrivabile. E il lieto fine appartiene solo al mondo delle favole.

Alla mattina, prima di andare a scuola, entravo qualche volta in chiesa, solo pochi minuti per chiedere al Signore di aiutarmi ad affrontare la giornata, a sopportare l’ansia delle relazioni con gli altri, i quotidiani confronti, i commenti crudeli, le prese in giro da cui uscivo sempre umiliato e sconfitto e in odio a me stesso. Ma Dio se ne stava distante e muto, come sempre. In quel periodo, mio padre temeva che volessi farmi prete.


Avrei dovuto fare come te, nonno: lanciarmi all’assalto delle femmine che se ne stavano impassibili ad osservare le mosse dei ragazzi, protette dal filo spinato dietro nidi di mitragliatrici; avrei dovuto affrontarle da ardito, con il pugnale fra i denti, la baionetta inastata e le bombe a mano, superando d’un balzo i campi minati e il fuoco nemico, piuttosto che rimanere nascosto, a macerare fra paura e disperazione nel fango della trincea.


Poi è esploso l’amore, beffardo, spietato, dirompente, distruggendo tutte le mie difese, le linee gotiche, le mura fortificate che avevo eretto per proteggermi dal mondo femminile, lasciandomi nudo e inerme a vagare fra le macerie del mio moralismo. Lentamente, dolorosamente una rivolta interiore mutò obiettivo: di nuovo mi trovavo a combattere contro me stesso, ma sul fronte opposto, da penitente dovevo trasformarmi in epicureo, edonista, superuomo, al di là del bene e del male. La mia mente si apriva al piacere, alla libertà sessuale, si liberava di ogni catena, di ogni pastoia morale, ma le reazioni del mio corpo, le paure, le angosce, le mie non relazioni continuavano ad essere quelle dell’adolescente chiuso nel suo bunker.

Tutto era cambiato entro di me, perché nulla cambiasse. Una vittoria di Pirro. Avevo gettato alle ortiche il rude saio del religioso per indossare le lussuose vesti del libertino: ho dovuto amaramente constatare che l’abito non fa il monaco ma neppure il gaudente. L’amore aveva distrutto senza ricostruire; mi aveva salvato ma non sanato; non era riuscito a contrastare le oscure forze del passato e così si è dissipata la mia giovinezza.

Ho raccolto la mia vita all’inizio del sentiero, e mi è scoppiata fra le mani. Estraneo a me stesso ho consumato anni monchi e imbelli, fino a questo rabbioso finale di partita… E adesso cosa faccio, nonno?…

(V - Fine)

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