Sunday, April 25, 2010

AVATAR Gautier I


AVATAR

di

Théophile Gautier

I

Nessuno riusciva a capire che malattia fosse quella che minava lentamente Octave de Saville. Non si era messo a letto e viveva normalmente. Dalle sue labbra non usciva mai un lamento e tuttavia deperiva a vista d'occhio.

Interrogato dai medici che parenti e amici ansiosi lo costringevano a consultare, non accusava nessuna sofferenza precisa e la scienza non scopriva nessun sintomo allarmante: i polmoni, auscultati, non rivelavano niente di sospetto e solo il battito del cuore poteva a malapena risultare all'orecchio o troppo lento o troppo accelerato. Non tossiva, non aveva febbre, ma la vita lo abbandonava fuggendo attraverso una di quelle invisibili fessure di cui, a sentire Terenzio, l'uomo è ricco.

A volte una strana sincope lo faceva diventare pallido e gelido come il marmo. Per un minuto o due pareva morto, poi il bilanciere, trattenuto da un dito misterioso, si sbloccava e riprendeva il suo movimento. Sembrava allora che Octave si risvegliasse da un sogno.

Lo avevano mandato alle cure termali, ma le ninfe delle acque non erano riuscite a fare nulla per lui. Neanche un viaggio a Napoli aveva dato risultati migliori. Quel bel sole, tanto decantato a lui era sembrato nero come un'incisione di Albrecht Dürer: il pipistrello sulla cui ala è scrittomelancholia sferzava con le sue membrane polverose quell'azzurro radioso e svolazzava fra lui e la luce.


Si era sentito gelare sul lungomare di Mergellina dove i lazzaroni seminudi si crogiolano al sole patinando di bronzo la loro pelle.

Era perciò tornato al suo appartamentino di rue Saint-Lazare e apparentemente aveva ripreso le vecchie abitudini.

Era un quartiere confortevolmente arredato come può esserlo una garçonnière. Ma poiché un'abitazione alla lunga finisce per assumere la fisionomia e forse la mentalità di chi ci vive, la casa di Octave si era man mano intristita: il damasco delle tende si era sbiadito e non lasciava filtrare che una luce grigia. I grandi mazzi di peonie appassivano sul fondo meno bianco del tappeto; per effetto di una polvere implacabile l'oro delle cornici intorno a certi acquarelli e schizzi d'autore a poco a poco era diventato rossastro. Scoraggiato, il fuoco languiva fumando tra la cenere.

La vecchia pendola di Boule, incrostata di rame e di tartaruga verde, attutiva il suo tic tac e le ore annoiate rintoccavano sottovoce come se parlassero nella camera di un malato. Le portiere ricadevano silenziose e i passi dei rari visitatori si smorzavano sulla moquette. Entrando in quelle stanze tetre, fredde e buie, pur se dotate di ogni lusso moderno, il riso si spegneva spontaneamente. Jean, il domestico di Octave, vi passava come un'ombra, con un piumino sotto il braccio, un vassoio in mano: anche lui aveva finito col perdere la sua loquacità e inconsapevolmente condizionato dalla malinconia del luogo.

Alle pareti erano appesi come trofei guanti da boxe, maschere e fioretti, ma era chiaro che da un pezzo nessuno li aveva più toccati. Sparsi sui mobili c'erano libri presi e abbandonati con indifferenza, come se leggendo macchinalmente Octave si fosse voluto liberare da un'idea fissa. Una lettera iniziata, dalla carta ormai ingiallita, sembrava attendere da mesi di essere conclusa, bene in vista sulla scrivania come un muto rimprovero. Benché abitato, l'appartamento pareva deserto. La vita era assente, e quando si entrava si era colpiti in pieno viso da quel soffio d'aria fredda che esce dalle tombe allorché vengono aperte.

Nella sua lugubre dimora in cui nessuna donna si arrischiava a metter piede, Octave si sentiva più a suo agio che da qualunque altra parte. Gli si confacevano quel silenzio, quella tristezza e quell'abbandono; lo spaventava l'allegro tumulto della vita benché a volte si sforzasse di parteciparvi. Ma poi tornava più cupo di prima dalle feste in maschera, dai ricevimenti o dalle cenette dove lo trascinavano gli amici. Così aveva smesso di lottare contro il suo misterioso dolore e lasciava passare giorni con l'indifferenza di un uomo che non conta più sul domani. Non faceva progetti, visto che non credeva più nel futuro, e dopo aver inviato a Dio le sue tacite dimissioni dalla vita, aspettava che le accettasse.

Si sbaglierebbe però chi immaginasse un viso smagrito e smunto, un colorito terreo, membra spossate, un'aria distrutta: al massimo si notavano gli occhi un po' segnati, un alone giallastro intorno alle orbite, un certo cedimento alle tempie solcate da vene bluastre. Solo nello sguardo si era spenta la scintilla dell'anima, che la volontà, la speranza e il desiderio avevano ormai abbandonato. Quello sguardo senza vita contrastava stranamente con la giovinezza del volto ed era più penoso a vedersi del viso smagrito, con gli occhi lucidi di febbre, di un normale malato.

Prima di perdere ogni vigore, Octave era stato quel che suol dirsi un bel ragazzo, e seguitava ad esserlo: capelli neri, folti e ricci, lucidi come la seta, gli incorniciavano le tempie, i lunghi occhi vellutati di un blu intenso e dalle ciglia ricurve potevano accendersi di umide scintille, e nei momenti di quiete, quando non li animava la passione, si facevano notare per quella calma serena tipica degli occhi degli orientali, quando fanno il kief davanti alla porta di un caffè di Smirne o di Costantinopoli, dopo aver fumato il narghilè. La sua carnagione, che non era mai stata colorita, ricordava il bianco olivastro dell'incarnato meridionale che risalta soprattutto alla luce. Aveva mani fini e delicate, piedi sottili e arcuati. Benché non si atteggiasse a dandy o a gentleman rider, se si fosse presentato al Jockey Club non l'avrebbero certamente respinto.

Ma perché mai, giovane e bello, ricco com'era, con tanti motivi per essere felice, si consumava in maniera così pietosa? Direte magari che Octave era uno scettico, che i romanzi in voga gli avevano guastato il cervello con le loro idee malsane, che non credeva in niente, che aveva sperperato giovinezza e patrimonio in folli orge, rimanendo soltanto con i debiti: tutte supposizioni non rispondenti al vero. Non avendo certo abusato dei piaceri, Octave non poteva esserne disgustato. Non era né malinconico né sognatore, né ateo né libertino e neanche scialacquatore: fino a quel momento nella sua vita si erano alternati studio e divertimento, come in quella degli altri giovani. La mattina frequentava le lezioni alla Sorbona e la sera lo scalone dell'Opéra per veder sfilare gli abiti da sera. Non si poteva dire che avesse relazioni di basso o d'alto rango, e spendeva i suoi redditi senza intaccare il capitale con i suoi capricci. Il suo notaio lo stimava.

Era quindi un uomo tranquillo, che non si sarebbe buttato nel ghiacciaio di Manfred e non avrebbe acceso il fornello di Escousse. Quanto alla causa del suo singolare stato davanti al quale la scienza medica era impotente, essa appare talmente inverosimile nella Parigi del diciannovesimo secolo, che non osiamo confessarla e lasciamo che la spieghi lo stesso protagonista.

Dato che i medici ordinari non riuscivano a capire quella strana malattia, poiché nelle sale anatomiche non è stata ancora effettuata la dissezione dell'anima, in ultima istanza fu fatto ricorso a un dottore un po' speciale, reduce da un lungo soggiorno nelle Indie, che godeva fama di praticare terapie mirabili.

Octave, presentendo una perspicacia fuori dal comune e in grado di penetrare il suo segreto, sembrava temere la visita del medico, e solo l'insistenza della madre lo avevo convinto a ricevere il signor Balthazar Cherbonneau.

Quando il dottore entrò, Octave era sdraiato su un divano: un cuscino gli sosteneva il capo, un altro il gomito, un terzo gli copriva i piedi, mentre una gandura lo avvolgeva con le sue soffici e morbide pieghe. Stava leggendo, o meglio teneva in mano un libro, perché in realta i suoi occhi fissi su una pagina non guardavano. Era pallido, ma come abbiamo già detto non appariva particolarmente alterato. Un osservatore superficiale non avrebbe mai creduto che il giovane fosse gravemente malato: invece di fiale, termometri, pozioni, tisane e altri farmaci di rigore in casi del genere, sul suo tavolino c'era una scatola di sigari. I lineamenti puri, benché un po' affaticati, avevano mantenuto quasi intatta la loro grazia, e se non fosse stato per la profonda atonia e l'irrimediabile disperazione dello sguardo, Octave sarebbe sembrato in buona salute.

Per quanto indifferente a tutto, Octave fu colpito dall'aspetto bizzarro del medico. Balthazar Cherbonneau sembrava un personaggio uscito da un racconto fantastico di Hoffmann, che si aggirava nel mondo reale stupefatto nel vedere quell'esemplare stravagante.


La sua faccia abbronzatissima era come divorata da un cranio enorme che la calvizie faceva sembrare ancor più grande. Quel cranio nudo, levigato come l'avorio, esposto ai raggi del sole, grazie ai vari strati di abbronzatura, aveva assunto le tonalità di una vecchia quercia o di un ritratto annerito dal fumo. Le parti piane, le cavità e le sporgenze delle ossa erano così pronunciate che la poca carne che le ricopriva con le grinze delle sue mille rughe, assomigliava a una pelle bagnata applicata su un teschio. Gli scarsi peli grigi, ancora vaganti sull'occipite, si suddividevano in tre ciuffi striminziti, due dei quali si drizzavano sopra le orecchie e il terzo partiva dalla nuca per finire dove cominciava la fronte. Incoronando in maniera grottesca quella faccia bazzuta, la loro vista faceva rimpiangere l'uso dell'antica parrucca a martello o della moderna zazzera di gramigna. Ma ad attrarre irresistibilmente lo sguardo erano soprattutto gli occhi, su quel viso bulinato dagli anni, nato da climi roventi, consumato dallo studio, sul quale il travaglio della vita e della scienza aveva inciso solchi profondi, zampe di gallina a raggiera, rughe più fitte dei fogli di un libro, scintillavano due pupille turchesi, incredibilmente limpide, fresche e giovani. Quelle stelle azzurre brillavano in fondo a orbite scure e a membrane concentriche i cui cerchi rossastri ricordavano vagamente le piume che aureolano l'occhio nictalope dei gufi. Sembrava che grazie a qualche stregoneria appresa dai bambini e dai pandit, il dottore avesse rubato occhi infantili e se li fosse sistemati su quel suo viso da cadavere. Il vecchio aveva lo sguardo di un ventenne, il giovane di un sessantenne.

Indossava il classico abito dei medici: giacca e pantaloni di stoffa nera, gilè di seta dello stesso colore e sulla camicia portava un grosso diamante, dono di un ragià o di un nababbo. Ma quei vestiti gli penzolavano addosso come se fossero stati appesi a un attaccapanni e ricadevano a pieghe perpendicolari che femori tibie spezzavano a angolo acuto quando il dottore si sedeva. Tuttavia il divorante sole indiano non era certamente l'unico responsabile di quella eccezionale magrezza: probabilmente, in vista della sua iniziazione, Balthazar Cherbonneau si era sottoposto ai lunghi digiuni dei fachiri ed era rimasto seduto sulla pelle di gazzella accanto agli yogi, tra i quattro bracieri ardenti. Quella perdita di sostanza corporea non l'aveva peraltro indebolito. Legamenti solidi e tesi sulle mani come le corde di un violino tenevano uniti tra loro gli ossicini delle falangi facendole muovere senza troppi scricchiolii.

Il dottore si sedette accanto al divano, sulla poltrona che Octave gli indicava, con una posizione degli arti che richiamava quella del metro pieghevole. I suoi movimenti rivelavano l'inveterata abitudine di accovacciarsi sulle stuoie. Piazzato in quella poltrona, il signor Cherbonneau volgeva le spalle alla luce che illuminava in pieno il viso del malato, posizione favorevole a un esame e volentieri assunta dagli osservatori più inclini a vedere che a essere visti. Sebbene il suo viso fosse immerso nell'ombra e la luce rischiarasse fuggevolmente solo la sommità del cranio lucente e arrotondato come un gigantesco uovo di struzzo, Octave distingueva lo scintillio delle strane pupille azzurre dotate di luce propria come i corpi fosforescenti: ne scaturiva un raggio acuto e chiaro che colpiva il giovane malato in pieno petto provocandogli quella sensazione di pizzicorino e di calore tipica di un emetico.

«Ebbene, signore», disse il dottore dopo un breve silenzio durante il quale parve ricapitolare gli indizi osservati nel corso del suo rapido esame, «vedo già che lei non rappresenta un caso di patologia comune. Lei non soffre di nessuna di quelle malattie già inventariate, dai sintomi ben noti, che il medico guarisce o fa peggiorare; e dopo che le avrà parlato per qualche minuto, io non le chiederò un foglio di carta per scrivere una anodina formula del Codex a cui apporre il mio geroglifico perché il suo cameriere la porti dal farmacista più vicino».

Octave sorrise debolmente, come per ringraziare il signor Cherbonneau di volergli evitare farmaci inutili e fastidiosi.

«Non si rallegri però tanto presto», seguitò il medico. «Dal fatto che lei non abbia una ipertrofia cardiaca, ne una tubercolosi polmonare, ne un rammollimento del midollo spinale, ne un versamento sieroso nel cervello e neanche una febbre tifoidea o nervosa, non consegue che sia in buona salute. Mi dia una mano».

Pensando che il signor Cherbonneau volesse tastargli il polso e aspettandosi di vedergli tirar fuori l'orologio, Octave si rimboccò la manica della gandura, scoprì il polso e glielo tese macchinalmente. Senza cercare con il pollice quella pulsazione rapida o lenta da cui si capisce se nell'uomo l'orologio della vita funzioni o meno, il signor Cherbonneau prese nella sua zampa scura, le cui dita ossute ricordavano le chele di un granchio, la mano sottile, solcata di vene e umidiccia del giovane, la palpò, la tormentò, la manipolò, per così dire, come per mettersi in comunicazione magnetica con il soggetto. Benché scettico nei confronti della medicina, Octave non poté non sentirsi turbato e ansioso perché aveva l'impressione che con quella pressione il dottore gli stesse sottraendo l'anima, e le guance gli si erano fatte pallidissime.

«Caro signor Octave», disse il medico lasciando la mano del giovane, «il suo stato è più grave di quanto lei non pensi, e la scienza, almeno quella che viene praticata normalmente in Europa, è impotente: lei non ha più voglia di vivere e la sua anima si stacca insensibilmente dal corpo. Lei non e ipocondriaco, né lipemaniaco, né ha una tendenza malinconica al suicidio. No! Caso raro e singolare, se io non mi opponessi lei potrebbe morire senza nessuna apprezzabile lesione interna o esterna. Era tempo che mi chiamasse perché ormai c'è soltanto un filo che lega lo spirito alla carne, ma noi lo annoderemo saldamente». E il dottore si fregò allegramente le mani con una smorfia che voleva essere un sorriso e che gli provocò tutto un fremere di rughe tra le mille grinze del viso.

«Signor Cherbonneau, non so se lei mi guarirà, e tutto sommato non ne ho nessuna voglia, ma devo ammettere che è riuscito a intuire di primo acchito la causa del mio stato misterioso. Ho l'impressione che il mio corpo sia diventato permeabile e lasci passare l'acqua come fosse un setaccio. Mi sento annullare nell'immensità del tutto e stento a distinguermi dall'ambiente in cui sono immerso. La vita di cui recito, per quanto mi è possibile, la solita pantomima per non addolorare parenti e amici, mi pare così estranea che a momenti mi credo già fuori dalla sfera umana. Vado e vengo per gli stessi motivi che in passato, dettati dallo stesso impulso meccanico, ma senza partecipare a ciò che faccio. Mi metto a tavola alle solite ore e do l'impressione di mangiare e di bere, benché non mi attraggano né i cibi più saporiti né i vini più forti. La luce del sole mi sembra pallida come quella della luna e le candele hanno fiammelle nere. Ho freddo nei giorni più caldi dell'estate e a volte dentro di me si fa un gran silenzio come se il cuore non mi battesse più e gli ingranaggi interni si fossero fermati per un motivo ignoto. La morte non deve essere diversa dal mio stato, ammesso che i morti siano in grado di giudicare».

Lei soffre di una cronica impossibilità di vivere, malattia squisitamente morale e più frequente di quanto non si creda. Il pensiero è una forza che può uccidere come l'acido prussico, come la scintilla della bottiglia di Ledya, benché la traccia delle sue devastazioni non si possa cogliere con gli scarsi mezzi di cui dispone la scienza comune. Quale dolore le ha conficcato nel fegato il suo becco adunco? Dall'alto di quale ambizione è precipitato rompendosi le ossa? Quale amara disperazione va rimuginando nella sua immobilità? È la sete del potere a tormentarla? Ha rinunciato volontariamente a uno scopo che superava i limiti umani? È troppo giovane per questo. Una donna l'ha tradito?».

No, dottore», rispose Octave, «non ho avuto neanche questa fortuna».

«Eppure», riprese il signor Cherbonneau, «nei suoi occhi spenti, nell'atteggiamento avvilito del corpo, nel timbro sordo della voce, io leggo il titolo di una commedia di Shakespeare con la stessa chiarezza che se fosse stampato a lettere d'oro sulla costola di un libro rilegato in pelle».

«E che commedia è quella che sto rappresentando senza saperlo?», chiese Octave, la cui curiosità si andava suo malgrado risvegliando.

«Love's labour's lost», seguitò il dottore con perfetto accento, frutto del suo lungo soggiorno nei possedimenti inglesi dell'India.

«Se non sbaglio, vuol dire pene d'amore perdute».

«Esattamente».

Octave non rispose: arrossì leggermente, e per darsi un contegno si mise a giocherellare con la nappa del cordiglio. Il dottore aveva incrociato le gambe come le ossa scolpite sulle tombe e si teneva un piede con la mano secondo l'uso orientale. I suoi occhi azzurri fissavano acutamente gli occhi di Octave interrogandoli con uno sguardo imperioso e dolce.

«Forza», disse il signor Cherbonneau, «si confidi con me, io sono il medico delle anime, lei è il mio malato, e come il prete cattolico al penitente, le chiedo una confessione completa, senza bisogno di inginocchiarsi».

«A che serve? Ammesso che lei abbia indovinato, raccontarle i miei dolori non li lenirebbe. Le mie pene non sanno esprimersi a parole, e nessun potere umano, neanche il suo è in grado di guarirmi».

«Può darsi», fece il dottore accomodandosi meglio nella poltrona, come chi si accinga ad ascoltare una confidenza piuttosto lunga.

«Non voglio che mi si accusi di testardaggine puerile», riprese Octave, «né offrirle un pretesto per lavarsi le mani della mia morte, se continuo a tacere. Visto che ci tiene, le racconterò la mia storia. Lei ne ha già intuito l'essenziale e non starò a lesinarle i particolari. Non si aspetti niente di singolare o di romanzesco. È un'avventura molto semplice, molto comune, addirittura trita. Ma come dice Heine, colui a cui capita la trova sempre nuova e ne ha il cuore infranto. In verità mi vergogno a raccontare qualcosa di così banale a un uomo che ha vissuto nei paesi più favolosi e più chimerici».

«Non abbia paura: per me nulla è più straordinario delle cose comuni», riprese sorridendo il dottore.

«Ebbene! dottore, sto morendo d'amore»

(I - continua)

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