Tuesday, June 15, 2010

AVATAR VI

VI


Nel silenzioso cortile della casa si sentì il rumore di una carrozza e poco dopo Octave si presentò davanti al dottore. Quando questi gli fece vedere il conte Olaf Labinski apparentemente morto, rimase stupefatto.

In un primo momento pensò a un omicidio e per un attimo rimase muto d'orrore, ma dopo aver guardato attentamente si accorse che il petto del giovane dormiente si alzava e si abbassava in un respiro quasi impercettibile.

«Ecco qui già pronto il suo travestimento», disse il dottore. «È un po' più difficile da indossare di un domino noleggiato da Babin, ma Romeo, quando sale sul balcone di Verona, non sta a pensare che potrebbe rompersi il collo. Sa che Giulietta lo aspetta lassù nella camera, avvolta nei suoi veli notturni. La contessa Labinska può ben reggere il confronto con la figlia dei Capuleti».

Octave se ne restava silenzioso, turbato da quell'insolita situazione: continuava a guardare il conte che aveva la testa leggermente riversa su un cuscino e ricordava quelle statue di cavalieri adagiate sulle tombe dei chiostri gotici con un guanciale marmoreo sotto la rigida nuca. Quella bella e nobile figura che egli stava per spossessare della sua anima, gli ispirava suo malgrado qualche rimorso.



Nel vederlo così soprappensiero il dottore pensò che Octave esitasse e le sue labbra accennarono un sorriso sprezzante, mentre gli diceva:

«Se non è deciso, posso svegliare il conte, che se ne andrà come è venuto, meravigliandosi del mio potere magnetico. Ma ci pensi bene: un'occasione del genere potrebbe non ripetersi più. Ciò nonostante, per quanto il suo amore possa suscitare il mio interesse, per quanto desideri fare un esperimento mai tentato in Europa, non le nasconderò che questo scambio di anime presenta qualche pericolo. Si batta il petto, interroghi il suo cuore. È davvero disposto a rischiare la vita giocando quest'ultima carta? L'amore è forte come la morte, dice la Bibbia».

«Sono pronto», rispose semplicemente Octave.

«Bene, giovanotto», esclamò il dottore fregandosi le mani scure e magre con straordinaria rapidità, come se avesse voluto accendere il fuoco alla maniera dei selvaggi. «Mi piace questa passione che non indietreggia davanti a nulla. Ci sono due sole cose al mondo: la passione e la volontà. Se non sarà felice non sarà certo per colpa mia. Ah, mio vecchio Brahma-Logum, ora vedrai dal cielo d Indra dove le apsara ti circondano con i loro canti voluttuosi, se ho dimenticato l'irresistibile formula che mi hai rantolato all'orecchio mentre stavi per abbandonare la tua carcassa mummificata. Parole e gesti, ricordo tutto. Al lavoro! Ora nel nostro calderone faremo uno strano intruglio come le streghe di Macbeth, ma senza gli ignobili sortilegi del nord. Si sieda davanti a me, in quella poltrona, e si abbandoni fiduciosamente al mio potere. Bene! Occhi negli occhi, mani contro le mani. Ecco l'incantesimo comincia già ad agire. La nozione di tempo e spazio si va smarrendo, la coscienza dell'io svanisce, le palpebre si abbassano. Non ricevendo più ordini dal cervello, i muscoli si rilassano, il pensiero si assopisce, tutti i delicati filamenti che collegano l'anima al corpo si sciolgono. Braham, nell'uovo d'oro dove ha sognato per diecimila anni, non era separato dalle cose esterne più di così. Saturiamolo di effluvi, inondiamolo di raggi».

Borbottando queste frasi smozzicate, il dottore seguitava senza interruzione i suoi gesti magnetici: dalle mani tese scaturivano flussi luminosi che andavano a colpire la fronte o il cuore del paziente, intorno al quale appariva a poco a poco una specie di alone fosforescente.



«Benissimo!», fece il signor Balthazar Cherbonneau plaudendo alla propria opera. «Ecco come lo voglio. Vediamo, vediamo, che cos'è che ancora sta resistendo?», esclamò dopo una breve pausa, come se attraverso il cranio di Octave vedesse l'ultimo sforzo della personalità che rifiutava di annientarsi. «Che cos'è questa idea ribelle che cacciata dalle circonvoluzioni del cervello cerca di sottrarsi alla mia influenza raggomitolandosi sulla monade primitiva, nel punto centrale della vita? Ma io la riprenderò e la domerò».

Per vincere quell'involontaria ribellione, il dottore ricaricò con maggior potenza la batteria magnetica del suo sguardo e aggiunse il pensiero in rivolta tra la base del cervelletto e l'inizio del midollo spinale, il santuario più nascosto, il tabernacolo più misterioso dell'anima. Il suo trionfo era completo.

Con maestosa solennità si preparò allora all'inaudito esperimento che stava per tentare. Indossò come un mago una veste di lino, si lavò le mani in acqua profumata, prese da diverse scatole delle polverine con cui si fece ieratici tatuaggi sulle guance e sulla fronte. Poi si cinse il braccio con il cordone dei bramini lesse due o tre sloca dei poemi sacri e non omise nessuno dei minuziosi rituali raccomandati dal sannyasi delle grotte di Elefanta.

Terminate le cerimonie, fece salire al massimo la temperatura. Ben presto l'atmosfera della sala diventò talmente infuocata che perfino le tigri della giungla sarebbero venute meno, la corteccia di fango sulla pelle rugosa dei bufali si sarebbe crettata e il largo fiore dell'aloe sarebbe sbocciato con una detonazione.

«Le due scintille del fuoco divino, che fra breve si troveranno per qualche attimo nude e spoglie del loro involucro mortale, non debbono impallidire o spegnersi nella nostra gelida aria», disse il dottore guardando il termometro che in quel momento segnava 120 gradi Fahrenheit.

Nella sua bianca veste, il dottor Balthazar Cherbonneau aveva l'aria, tra i due corpi inerti, del sommo sacerdote di una di quelle religioni sanguinarie che gettavano cadaveri umani sull'altare dei loro dei. Anche se le sue intenzioni erano sicuramente più pacifiche, faceva pensare a quel sacerdote di Vitziliputzili, il feroce idolo messicano di cui parla Heine in una sua ballata.



Si avvicinò al conte Olaf Labinski sempre immobile e pronunciò l'ineffabile sillaba che andò a ripetere subito dopo su Octave profondamente addormentato. La faccia del dottor Cherbonneau, solitamente bizzarra, aveva assunto in quel momento una singolare maestà: la grandezza del potere di cui disponeva nobilitava i suoi tratti irregolari, e se qualcuno l'avesse visto mentre compiva quei riti misteriosi con gravità sacerdotale, non avrebbe riconosciuto in lui il dottore alla Hoffmann, degno della matita di un caricaturista, ma pronto a sfidarla.

Accaddero a quel punto cose assai strane: le convulsioni dell'agonia parvero agitare simultaneamente Octave de Saville e il conte Olaf Labinski i cui visi si andavano alterando, mentre alle loro labbra saliva una leggera schiuma e la pelle assumeva un pallore mortale. Due piccoli bagliori azzurrini scintillarono allora tremolando sopra le loro teste.

A un gesto fulmineo del dottore che sembrava volesse tracciar loro la via, i due punti fosforescenti si mossero nell'aria lasciandosi dietro una scia luminosa e raggiunsero la loro nuova dimora: l'anima di Octave occupò il corpo del conte Labinski, l'anima del conte quello di Octave. L'avatar era compiuto.

Un lieve rossore sugli zigomi stava a indicare che la vita era tornata in quelle argille umane rimaste per qualche istante prive di anima e che senza i poteri del dottore sarebbero state preda dell'Angelo nero.

La gioia del trionfo faceva brillare le pupille azzurre di Cherbonneau che camminando a gran passi per la stanza andava dicendo: «Facciano altrettanto i medici più osannati, loro che sono così fieri di saper riaggiustare alla meno peggio l'orologio umano quando si guasta: Ippocrate, Galieno, Paracelso, Van Helmont, Boerhave, Tronchin, Hahnemann, Rasori. Il più modesto fachiro accovacciato sulle scale di una pagoda, ne sa mille volte più di voi! Che cosa importa un cadavere, quando si sa comandare allo spirito!».

Alla fine della sua riflessione, il dottor Balthazar Cherbonneau fece un bel po' di capriole d'esultanza e danzò come le montagne nel Sir-Hasirim del re Salomone. Poco ci mancò che picchiasse il naso impigliandosi nella veste da bramino, piccolo incidente che lo fece tornare in sé e recuperare tutto il suo sangue freddo.



«Svegliamo i nostri dormienti», disse il signor Cherbonneau dopo essersi ripulito il viso delle strisce colorate con cui l'aveva macchiato ed essersi spogliato della veste braminica. Dopo di che si mise davanti al corpo del conte Labinski abitato dall'anima di Octave e fece i gesti necessari per farlo emergere dallo stato sonnambolico, scuotendo a ogni gesto le dita cariche del fluido da cui lo andava liberando.

Dopo qualche minuto Octave Labinski (che ormai chiameremo così perché il racconto diventi più chiaro) si mise a sedere, si fregò gli occhi e volse intorno uno sguardo stupito, non ancora rischiarato dalla coscienza dell'io. Quando ebbe ritrovato la netta percezione degli oggetti, la prima cosa che vide fu la sua forma adagiata sul divano, al di fuori di lui. Si vedeva! Non riflesso in uno specchio, ma come un essere reale. Cacciò un grido, e quel grido che non risuonò con il timbro della sua voce gli provocò una sorta di spavento. Dato che lo scambio di anime era avvenuto durante il sonno magnetico, egli infatti non lo ricordava e provava uno strano malessere. Il suo pensiero, dotato di nuovi organi, era come un operaio al quale siano stati tolti gli attrezzi abituali in cambio di altri. Psiche, disorientata, sbatteva le ali inquiete contro la volta di quel cranio sconosciuto, e si perdeva nei meandri di un cervello dove rimanevano ancora tracce di idee estranee.

«Bene», disse il dottore dopo che si fu rallegrato a sufficienza della sorpresa di Octave-Labinski, «che gliene sembra della sua nuova dimora? La sua anima si trova bene nel corpo di questo simpatico cavaliere, hetman, hospodar o grande signore, marito della più bella donna del mondo? Non ha più voglia di lasciarsi morire come progettava la prima volta che l'ho vista nel suo triste appartamento della rue Saint-Lazare, adesso che le porte di casa Labinski le sono spalancate e lei non teme più che Prascovia le metta una mano davanti alla bocca come a villa Salviati, quando le vorrà parlare d'amore? Come vede, il vecchio Balthazar Cherbonneau, con la sua faccia scimmiesca, che potrebbe benissimo cambiare con un'altra, può ancora tirar fuori dal suo cappello di prestigiatore qualche bella sorpresa».

«Dottore», rispose Octave-Labinski, «lei ha i poteri di Dio, o quanto meno di un demone».

«Oh! Oh! Non abbia paura, in tutto questo non c'e ombra di diavoleria. La sua salvezza non è in pericolo: non le farò sottoscrivere un patto con una firma rossa. Non c'è niente di più semplice di quanto è accaduto. Il Verbo che ha creato la luce può ben trasferire un anima. Se gli uomini fossero disposti ad ascoltare Dio attraverso il tempo e l'infinito in fede mia farebbero ben altro».

«Come esprimerle la mia gratitudine e la mia devozione per questo inestimabile servigio?»

«Non mi deve niente. Lei m'interessava e per una vecchia volpe come me, ben corazzato, che ha visto di tutto, un'emozione è una cosa rara. Le mi ha svelato che cos'è l'amore, e come sa, noi sognatori un po' alchimisti, un po' maghi, un po' filosofi cerchiamo tutti più o meno l'assoluto. Ma su, si alzi, si muova, cammini, e veda un po' se non si sente a disagio nella sua nuova pelle».

Ubbidendo al dottore, Octave-Labinski fece qualche giretto per la camera. Si sentiva già meno impedito: benché abitato da un'altra anima, il corpo del conte ubbidiva all'impulso delle vecchie abitudini e il nuovo ospite si affidò a quei ricordi fisici, giacché ciò che gli stava a cuore era assumere l'andatura, il portamento, il modo di gestire del proprietario espulso.

Ridendo, il dottor Balthazar Cherbonneau disse: «Se io stesso non avessi appena effettuato il trasferimento delle vostre anime, avrei l'impressione che stasera sono accadute le solite cose, e la prenderei per il vero, legittimo e autentico conte lituano Olaf Labinski, il cui io sta ancora sonnecchiando nella crisalide che lei ha sdegnosamente abbandonato. Ma fra poco suonerà mezzanotte: si sbrighi perché Prascovia non la rimproveri accusandola di preferirle la zecchinetta o il baccarat. Non è bene iniziare la vita coniugale con una lite: sarebbe di cattivo augurio. Intanto io penserò a risvegliare il suo vecchio involucro con tutte le precauzioni e i riguardi che merita».

Octave-Labinski riconobbe che le osservazioni del dottor Balthazar Cherbonneau erano fondate e si affrettò a uscire. Ai piedi della scalinata scalpitavano impazienti i magnifici bai del conte, che a forza di mordere il freno avevano coperto di schiuma il selciato.

Al suono dei passi del giovane, un imponente domestico in livrea verde, della razza ormai perduta degli aiduchi, si precipitò ad abbassare rumorosamente il predellino della carrozza. Octave, che macchinalmente si era diretto al suo modesto brougham, prese posto nell'alto e splendido coupé e disse al cameriere, che trasmise l'ordine al cocchiere: «A casa!». La portiera si era appena chiusa che i cavalli partirono drizzandosi sulle zampe posteriori, e il degno successore degli Almanzor e degli Azolan si appese ai larghi cordoni di passamaneria con un'agilità insospettabile in un corpo così massiccio. I veloci cavalli superarono in un lampo la breve distanza tra la rue du Regard e il faubourg Saint-Honoré. Con voce stentorea il cocchiere gridò: «La porta!».




Spinti dal portiere i due immensi battenti si aprirono per lasciar passare la carrozza, che girò in un grande cortile coperto di sabbia e si fermo con lodevole precisione sotto un tendone a righe bianche e rosa.

Il cortile che Octave-Lubinski osservò in ogni particolare, con quella rapidità di visione propria di certi momenti solenni, era degno di un grande palazzo. Era un cortile vasto, circondato da edifici simmetrici, illuminato da lampioni di bronzo, nei cui fanali di cristallo simili a quelli che un tempo ornavano il Bucintoro, guizzavano bianche lingue di gas. Cassette di piante d'arancio, degne delle terrazze di Versailles, erano disseminate lungo il bordo d'asfalto che costeggiava la distesa sabbiosa del cortile.

Con il piede sulla soglia, il povero innamorato trasformato in un altro fu costretto a fermarsi un attimo per frenare con la mano i palpiti del cuore.

Del conte Olaf Labinski possedeva solo l'apparenza fisica: tutte le nozioni del suo cervello se n'erano andate con l'anima del vecchio proprietario. La casa che ormai doveva essere la sua gli era sconosciuta e ne ignorava la disposizione interna. Seguì a caso una scala che si vide davanti, pronto ad attribuire a distrazione un eventuale errore.

I gradini di pietra pomice erano di un candore abbagliante e mettevano in risalto il rosso carico della larga guida di moquette fissata da bacchette d'ottone, morbida via suggerita al piede. Giardiniere piene dei più bei fiori esotici salivano con lui ogni gradino.

Un'immensa lanterna intagliata e traforata, appesa a un grosso cordone di seta porpora adorno di nappe e di fiocchi, faceva correre brividi d'oro sulle pareti coperte di stucco bianco e levigato come il marmo, e proiettava un fascio di luce su una copia, eseguita dallo stesso Canova, di uno dei suol gruppi più celebri, Amore che abbraccia Psiche.



Il pianerottolo dell'unico piano era pavimentato di mosaici preziosamente lavorati, e alle pareti erano appesi con cordoni di seta quattro quadri rispettivamente di Paris Bordone, del Bonifazio, di Palma il Vecchio e del Veronese, il cui fastoso stile architettonico si armonizzava con la magnificenza della scala.

Sul pianerottolo si apriva un'alta porta di sergia trapunta di chiodi dorati: Octave-Labinski la spinse e si trovò in una grande anticamera dove sonnecchiavano alcuni servitori in tenuta di gala che al suo ingresso balzarono come molle e si disposero lungo le pareti, impassibili come schiavi orientali.

Octave-Labinski seguitò il suo cammino. Dopo l'anticamera c'era un salone deserto, color bianco e oro. Quando Octave tirò il cordone di un campanello, comparve una cameriera.

«La signora può ricevermi?».

«La signora contessa si sta spogliando, ma fra poco sarà pronta».

(VI - Continua)

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