Saturday, May 22, 2010

AVATAR IV

IV

Erano trascorsi due anni dal giorno in cui la contessa Labinska aveva bloccato sulle labbra di Octave la dichiarazione d'amore che non doveva ascoltare. Octave se n'era andato con la sua speranza distrutta, e roso da un cupo dolore non aveva dato più notizie a Prascovia. Le uniche parole che avrebbe potuto scriverle erano anche le uniche proibite. Ma più di una volta, preoccupata da quel silenzio, la contessa aveva pensato malinconicamente al suo povero adoratore: l'aveva dimenticata? Divinamente estranea a ogni civetteria, se lo augurava senza crederci, poiché l'inestinguibile fiamma della passione illuminava gli occhi di Octave, e la contessa non poteva essersi sbagliata. L'amore e gli dei si riconoscono dallo sguardo: quest'idea offuscava come una piccola nube il limpido azzurro della sua felicità e le ispirava la leggera tristezza degli angeli che in cielo si ricordano della terra. La sua anima delicata soffriva nel sapere che laggiù c'era qualcuno che soffriva a causa sua. Ma che cosa può fare l'aurea stella che brilla nell'alto del firmamento per l'oscuro pastore che alza verso di lei le braccia smarrite? È vero che nei tempi mitologici gli argentei raggi di Febe erano scesi su Endimione dormiente, ma Febe non era sposata con un conte polacco.



Appena arrivata a Parigi la contessa aveva mandato a Octave quel banale invito che il dottor Cherbonneau si stava girando distrattamente fra le dita, e non vedendolo venire, sebbene lei ne avesse espresso il desiderio, si era detta con un involontario moto di gioia: «Mi ama ancora!». Eppure era una donna angelicamente pura e casta come la neve della più alta vetta dell'Himalaya.

Ma perfino Dio, lassù nel suo infinito, per distrarsi dalla noia dell'eternità non ha che il piacere di sentir battere per lui il cuore di una povera piccola creatura mortale su un miserabile globo, sperduto nell'immensità. Prascovia non era più severa di Dio e il conte Olaf non avrebbe potuto biasimare quella delicata sensazione di voluttà.

«Il suo racconto, che ho ascoltato attentamente», disse il dottore a Octave, «mi dimostra che ogni sua speranza sarebbe chimerica: la contessa non corrisponderà mai al suo amore».

«Lo vede, signor Cherbonneau, avevo ragione a non cercar di trattenere la mia vita che se ne va».

«Ho detto che non c'è speranza con i mezzi normali», seguitò il dottore, «ma esistono potenze occulte misconosciute dalla scienza moderna di cui si è conservata la tradizione in quei paesi esotici che una civiltà ignorante definisce barbari. In questi paesi, agli albori del mondo, il genere umano, che era in diretto contatto con le forze vive della natura, conosceva segreti che noi crediamo perduti e che, non hanno portato con sé, nelle loro migrazioni, le tribù che più tardi hanno dato origine ai vari popoli. Questi segreti furono dapprima trasmessi da iniziato a iniziato nelle misteriose profondità dei templi, poi vennero scritti in idiomi sacri incomprensibili al volgo, incisi sotto forma di geroglifici lungo le segrete pareti delle grotte di Ellora.


Sulle pendici del monte Meru, dove nasce il Gange, ai piedi della scalinata di marmo della città santa di Benares, tra i ruderi delle pagode di Ceylon, si possono ancora incontrare bramini centenari intenti a decifrare manoscritti sconosciuti, yogi che ripetono l'ineffabile monosillabo ‘om’ senza accorgersi degli uccelli del cielo che nidificano fra i loro capelli, fachiri le cui spalle portano i segni delle cicatrici lasciate dagli uncini di ferro di Jagannath: tutti costoro possiedono questi arcani perduti e ne ottengono risultati meravigliosi quando ritengono di doversene servire.



La nostra Europa, tutta presa dagli interessi materiali, non sospetta neppure a che grado di spiritualità siano giunti i penitenti indiani: digiuni totali, stati contemplativi di una fissità da lasciare sbigottiti, posizioni impossibili mantenute per anni interi ne prosciugano a tal punto il corpo che a vederli accovacciati sotto un sole di piombo, tra bracieri ardenti, con le unghie così lunghe da perforare il palmo della mano, si direbbero mummie egiziane tirate fuori dalla bara e piegate in atteggiamenti scimmieschi. L'involucro umano non è più che una crisalide che l'anima, farfalla immortale, può lasciare o ritrovare a piacimento.

Mentre la loro spoglia scarnita resta li, inerte, orribile a vedersi, come una larva notturna sorpresa dalla luce, il loro spirito, libero da ogni legame, si slancia sulle ali dell'allucinazione nei mondi soprannaturali ed altezze incalcolabili. Hanno visioni e sogni strani; di estasi in estasi seguono le ondulazioni che le età scomparse generano sull'oceano dell'eternità; percorrono l'infinito in ogni senso, assistono alla creazione degli universi, alla genesi degli dei e alle loro metamorfosi; recuperano la memoria delle scienze ingoiate dai cataclismi plutoniani e diluviani, dei rapporti ormai dimenticati fra gli uomini e gli elementi. In quel loro eccezionale stato borbottano parole appartenenti a lingue che nessun popolo sulla faccia della terra parla più da migliaia di anni, ritrovano il verbo primordiale, il verbo che ha fatto scaturire la luce dalle antiche tenebre: vengono presi per pazzi e sono quasi degli dei!».

Octave ascoltava con estrema attenzione quel singolare preambolo del signor Cherbonneau, fissandolo con occhi stupiti e pieni di interrogativi. Non riusciva a capire dove volesse arrivare né che rapporto ci potesse essere tra i penitenti indiani e il suo amore per la contessa Prascovia Labinska.

Il dottore, intuendo i pensieri di Octave, fece un gesto con la mano come per prevenirne le domande e disse: «Pazienza, mio caro malato. Fra poco capirà che non sto facendo inutili digressioni. Stanco di interrogare con il bisturi, sui tavoli delle sale anatomiche, cadaveri che non mi rispondevano e mi permettevano di vedere soltanto la morte, mentre io cercavo la vita formulai il progetto - un progetto ardito come quello di Prometeo che vuol scalare il cielo per rubare il fuoco - di arrivare a scoprire l'anima, di analizzarla e per così dire di sezionarla. Tralasciai l'effetto per la causa, profondamente disgustato dalla scienza materialista di cui mi era evidente la nullità. Operare su quelle forme vaghe, su quella fortuita aggregazione di molecole, mi sembrava compito di un grossolano empirismo.

Mediante il magnetismo tentai di sciogliere i legami che incatenano lo spirito al suo involucro. Superai rapidamente Mesmer, Deslon, Maxwell, Puységur, Deleuze e tutti gli scienziati più abili, effettuando esperimenti davvero prodigiosi, ma che ancora non mi soddisfacevano pienamente.



Catalessi, sonnambulismo, visione a distanza, lucidità estatica: ottenni a volontà tutti questi effetti incomprensibili per il volgo, ma semplici e comprensibili per me. Risalii più lontano: dall'estasi di Cardano e di san Tommaso d'Aquino passai alle crisi nervose delle Pizie; scoprii gli arcani degli Epopti greci e dei Nebiim ebrei; mi iniziai retrospettivamente ai misteri di Trofonio e di Esculapio, individuando sempre nei portenti che si raccontano una concentrazione o un'esperienza dell'anima provocata ora dal gesto, ora dallo sguardo, ora dalla parola, ora dalla volontà o da qualsiasi altro agente sconosciuto. Rifeci a uno a uno i miracoli di Apollonio di Tiana.

Ciò nonostante il mio sogno scientifico non si era ancora realizzato: l'anima continuava a sfuggirmi. La intuivo, la sentivo, avevo un certo potere su di lei, ne intorpidivo o ne stimolavo le facoltà, ma tra me e lei c'era un velo di carne che non potevo sollevare senza che lei volasse via: ero come l'uccellatore che tiene un uccello sotto una rete che non osa alzare temendo che la preda alata svanisca nel cielo.

Partii per l'India sperando di trovare la chiave dell'enigma nella terra dell'antica saggezza. Imparai il sanscrito e il pacrit, linguaggi dotti e popolari. Potei conversare con i pandit e i bramini. Attraversai le giungle dove urla rauca la tigre in agguato. Costeggiai gli stagni sacri che il dorso dei coccodrilli ricopre di squame. Superai foreste rese impenetrabili dall'intrico di liane, mettendo in fuga nugoli di pipistrelli e di scimmie, trovandomi faccia a faccia con l'elefante alla svolta di un sentiero tracciato dalle belve. Arrivai infine alla capanna di qualche yogi famoso in comunicazione con i Mouni. Per giorni interi mi sedetti accanto a lui spartendo la sua pelle di gazzella, e annotai le vaghe formule magiche che mormoravano nell'estasi le sue labbra nere e screpolate. Colsi così parole onnipotenti, formule evocatrici, sillabe del Verbo creatore.


Studiai le sculture simboliche nelle stanze interne delle pagode che nessun occhio profano ha mai visto e dove potei introdurmi vestito da bramino. Lessi molti misteri cosmogonici, molte leggende di civiltà scomparse. Scoprii il senso degli emblemi che questi dei sovraccarichi come la natura dell'India, tengono nelle loro multiple mani. Meditai sul cerchio di Brahma, sul loto di Visnù, sul cobra cappello di Siva il dio azzurro. Ganesa, srotolando la sua proboscide di pachiderma e strizzando i piccoli occhi dalle lunghe ciglia, sembrava sorridere ai miei sforzi e incoraggiare le mie ricerche. Tutte quelle figure mostruose mi dicevano nella loro lingua di pietra: "Noi non siamo che forme, è lo spirito a muovere la massa".

Un sacerdote del tempio di Tirunnamalay, al quale avevo par lato dell'idea che era al centro dei miei pensieri mi parlò di un penitente che viveva in una grotta dell'isola di Elefanta come di un uomo pervenuto al livello più sublime. Lo trovai appoggiato al muro della caverna, avvolto in un pezzo di sparto, con le ginocchia al mento, le dita incrociate sulle gambe in condizioni di assoluta immobilità. Le pupille rovesciate non lasciavano vedere che il bianco, le labbra si serravano sui denti tentennanti. La pelle resa incartapecorita da un'incredibile magrezza aderiva agli zigomi. I capelli ricadevano a ciuffi rigidi come i filamenti di una pianta dall'alto di una roccia. La barba si divideva in due fiumi che quasi toccavano terra e le unghie si curvavano come artigli d'aquila.

Il sole l'aveva disseccato e annerito fino a dare alla sua pelle di indiano, naturalmente scura, l'apparenza del basalto. In quella posizione assomigliava per forma e colore a un vaso canonico. A prima vista credetti che fosse morto. Gli scossi le braccia che erano come anchilosate da una rigidità catalettica, gli gridai all'orecchio con voce più forte che potei le parole sacramentali da cui avrebbe dovuto capire che ero un iniziato: non trasalì e le palpebre gli restarono immobili. Stavo per allontanarmi, disperando di poterne ricavare qualcosa, quando sentii uno strano crepitio e una scintilla azzurrina mi passò davanti agli occhi con la folgorante rapidità di un bagliore elettrico, volteggiò un attimo sulle labbra socchiuse del penitente e scomparve.



Brahma-Logum (così si chiamava il santo personaggio) sembrò svegliarsi dal letargo: le pupille ripresero il loro posto ed egli mi guardò con uno sguardo umano mentre rispondeva alle mie domande: "Ebbene, i tuoi desideri sono soddisfatti. Ora hai visto un'anima. Sono riuscito a separare la mia dal corpo quando voglio: essa ne esce, vi rientra come un'ape luminosa, percepibile ai soli occhi degli adepti. Ho talmente digiunato, pregato, meditato, mi sono macerato così severamente, che ho potuto sciogliere i legami terrestri che la incatenavano, e che Visnù, il dio dalle dieci incarnazioni, mi ha rivelato la parola misteriosa che la guida nei suoi avatar attraverso le diverse forme. Se dopo aver fatto i gesti consacrati la pronunciassi, la tua anima volerebbe via per dar vita all'uomo e all'animale che io avessi prescelto. Ti trasmetto questo segreto, che sono il solo al mondo a possedere. Sono davvero felice che tu sia venuto, perché ho fretta di fondermi nel cuore dell'increato, come una goccia d'acqua nel mare". E il penitente mi sussurrò con voce fievole come l'ultimo rantolo di un morente, e tuttavia distinta, alcune sillabe che mi fecero correre per la schiena quel leggero brivido di cui parla Giobbe».

«Che cosa intende dire, dottore?» esclamò Octave. «Non ho il coraggio di sondare la spaventosa profondità del suo pensiero».

«Intendo dire», rispose tranquillamente il signor Balthazar Cherbonneau, «che non ho dimenticato la magica formula del mio amico Brahma-Logum, e che la contessa Prascovia dimostrerebbe davvero un grande acume se riconoscesse l'anima di Octave de Saville nel corpo di Olaf Labinski».

(IV - Continua)

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