Friday, May 07, 2010

AVATAR III

III


Erano pochi coloro che passeggiando dalle parti degli Champs Elysées prendessero l'avenue Gabriel a partire dall'ambasciata ottomana fino all'Elysées Bourbon, preferendo al polveroso turbinio e all'elegante frastuono della grande arteria la solitudine, il silenzio e la fresca quiete di questa via, fiancheggiata da alberi e da giardini. Quasi tutti però si soffermavano inevitabilmente con aria incantata e con un senso di ammirazione misto a invidia davanti a una casa appartata, poetica e misteriosa, dove, cosa rara, la ricchezza sembrava albergare la felicità.


A chi non è capitato di fermarsi davanti al cancello di un giardino, di guardare lungamente una bianca villa attraverso il verde e di andarsene poi con il cuore grosso, come se il sogno della sua vita fosse nascosto dietro quelle mura? Altre case invece, viste da fuori, suscitano un'indefinibile tristezza: noia, abbandono, disperazione ingrigiscono crudamente la facciata e ingialliscono le cime semispoglie degli alberi. Il muschio copre di lebbra le statue, mentre i fiori intristiscono, l'acqua delle vasche si fa verde, le erbacce invadono ostinatamente i sentieri, e gli uccelli, se ci sono, tacciono.

I giardini, sotto il livello del viale, ne erano separati da un fossato, e a strisce più o meno larghe arrivavano fino alle ville che si affacciavano sulla rue du Faubourg-Saint-Honoré. Quello di cui stiamo parlando finiva al fossato con un terrapieno sostenuto da un muro di grosse rocce scelte per l'insolita irregolarità della forma. Innalzandosi come quinte, esse racchiudevano nella ruvida asperità delle loro cupe masse un fresco quadro verzicante. L'opunzia, l'asclepiade incarnata, l'iperico, la sassifraga, la cimbalaria, il semprevivo, la licnide delle Alpi, l'edera d'Irlanda trovavano negli anfratti terra a sufficienza per nutrire le radici e il loro verde così diverso si stagliava sul vigoroso sfondo della pietra. Un pittore non avrebbe saputo disporre in primo piano, sulla sua tela, più efficaci elementi di contrasto.

Le mura laterali che chiudevano quel paradiso terrestre scomparivano sotto un manto di piante rampicanti, aristolochie, granadiglie azzurre, campanule, caprifogli, gipsofili, glicini della Cina, periploche della Grecia i cui rizomi, viticci e steli formavano un verde intreccio. Neanche la felicità vuole infatti essere imprigionata, e grazie a quella disposizione il giardino assomigliava alla radura di una foresta più che a una piccola aiuola, delimitata dai recinti della civiltà.

A poca distanza dalle rocce alcuni ciuffi di alberi svettavano eleganti con le loro fronde rigogliose pittorescamente contrastanti: ailanti del Giappone, tuie del Canada, platani della Virginia, frassini verdi, bianchi salici, bagolari della Provenza, su cui dominavano alcuni larici. Oltre agli alberi si estendeva un prato con l'erba tutta alla stessa altezza: un prato più fine, più serico del velluto di un manto regale, di quel perfetto verde smeraldino che si ottiene solo in Inghilterra davanti alle scalinate dei manieri feudali, morbidi tappeti naturali che lo sguardo accarezza con gioia e il piede non osa calpestare, moquette vegetale sulla quale di giorno soltanto la gazzella addomesticata può ruzzare al sole con il piccolo duca vestito di pizzo, e di notte solo qualche Titania del West End può scivolare stringendo la mano di un Oberon iscritto nell'albo d'oro dei pari e dei baronetti.



Un viale di sabbia setacciata nel timore che una valva di conchiglia o un sasso appuntito ferisse i piedi aristocratici che vi lasciavano la loro delicata impronta, correva come un nastro giallo intorno a quella distesa verde, bassa e fitta, che il rullo pareggiava e la pioggia artificiale dell'annaffiatoio manteneva fresca e umida anche durante l'arsura estiva.

In fondo al prato, all'epoca in cui si svolge questa storia, esplodeva da un cespuglio di gerani un vero fuoco d'artificio floreale, con le sue stelle scarlatte fiammeggianti sul fondo scuro della terra di brughiera.

L'elegante facciata della villa chiudeva la prospettiva: le snelle colonne ioniche che sostenevano l'attico, sormontato a ogni angolo da un delicato gruppo marmoreo, le davano un aspetto da tempio greco trasportato in quel luogo dal capriccio di un milionario, e l'aurea di poesia e d'arte che creavano attenuava l'impressione troppo fastosa che avrebbe potuto suscitare tutto quel lusso. Tra le colonne, tende a grandi strisce rosa quasi sempre abbassate suggerivano e proteggevano le finestre che si aprivano direttamente sul portico come porte vetrate. Quando il lunatico cielo parigino si degnava di mostrare un lembo azzurro dietro la villa, le sue linee apparivano così armoniose tra i ciuffi di verde da far pensare a una casetta della regina delle fate o a un quadro ingrandito del Baron.

Due serre, protese nel giardino, costituivano le ali della villa. Tra nervature dorate, pareti di cristallo luccicavano al sole come diamanti, ricreando l'illusione del clima natale per una quantità di piante esotiche, rare e preziose.

Se un poeta mattiniero fosse passato per l'avenue Gabriel ai primi rosei chiarori dell'aurora, avrebbe sentito gli ultimi trilli notturni dell'usignolo e avrebbe visto il merlo passeggiare in pantofole gialle nel viale del giardino come se fosse stato a casa sua. Ma dopo che nel silenzio notturno si fosse spento il frastuono delle carrozze di ritorno dall'Opéra, quello stesso poeta avrebbe vagamente distinto un'ombra bianca al braccio di un bel giovane, e sarebbe risalito nella sua solitaria mansarda con l'anima mortalmente triste.

Come il lettore avrà certamente già indovinato, in quella casa abitavano da qualche tempo la contessa Prascovia Labinska e il marito, il conte Olaf Labinski, tornato dalla guerra del Caucaso dopo una gloriosa campagna. Anche se nel suo corso non aveva combattuto corpo a corpo con il mistico e inafferrabile Schamyl, di sicuro aveva avuto a che fare con i Murid fanaticamente devoti all'illustre sceicco. Aveva evitato le pallottole come fanno i coraggiosi, andando loro incontro, e le sciabole ricurve dei selvaggi guerrieri si erano spezzate sul suo petto senza scalfirlo. Il coraggio è una corazza senza pecche. Il conte Labinski possedeva quel folle coraggio delle razze slave che amano il pericolo per se stesso, e per le quali è ancora valido il ritornello di una vecchia canzone scandinava: «Uccidono, muoiono e ridono!».

L'ebbrezza con cui si erano ritrovati i due sposi per i quali il matrimonio non era che la passione consentita da Dio e dagli uomini, solo Thomas Moore avrebbe potuto cantarla, nello stile de Gli amori degli angeli! Ogni goccia di inchiostro dovrebbe trasformarsi nella nostra penna in una goccia di luce e ogni parola dovrebbe evaporare sulla carta ardendo e profumando come un granello d'incenso. Come descrivere quelle due anime fuse in una sola e simili a due lacrime di rugiada che scivolando su un petalo di giglio si incontrano, si mescolano, si assorbono reciprocamente fino ad essere un'unica perla? La felicità è una cosa rara in questo mondo che l'uomo non ha pensato a inventare parole per esprimerla, mentre il vocabolario della sofferenza fisica e morale riempie innumerevoli colonne nel dizionario di tutte le lingue.

Olaf e Prascovia si erano amati fin da bambini e un solo nome aveva fatto battere il loro cuore. Fin quasi dalla culla sapevano che si sarebbero appartenuti, e per loro il resto del mondo non esisteva. Pareva che si fossero ritrovate e riunite in loro le parti dell'androgino di Platone che si cercano invano dopo l'originaria separazione: essi formavano quella dualità nell'unità che è l'armonia completa e camminavano, o meglio volavano fianco a fianco attraverso la vita con un volo eguale, sostenuto, planando «quali colombe dal disio chiamate», per usare la bella immagine di Dante.



Affinché niente turbasse tale felicità, l'attorniava come un'atmosfera dorata un'immensa ricchezza. All'apparire di quella coppia splendente, la miseria consolata abbandonava i suoi stracci, le lacrime si asciugavano: Olaf e Prascovia avevano il nobile egoismo di chi è felice, e radiosi com'erano non potevano tollerare un solo dolore.

Da quando con il politeismo sono scomparsi quei giovani dei, quei geni sorridenti, quegli efebi celesti dalle forme così assolutamente perfette, così armoniosamente scandite, così idealmente pure, e la Grecia antica più non canta l'inno della bellezza in strofe di Paro, l'uomo ha crudelmente abusato della libertà di essere brutto, e benché fatto a immagine di Dio, lo rappresenta piuttosto male.



Il conte Labinski non aveva però profittato di quella licenza: l'ovale un po' allungato del viso, il naso sottile di un taglio fine e ardito, le labbra ben disegnate, messe in evidenza dagli affilati baffi biondi, il mento rialzato con una fossetta al centro, gli occhi neri, seducente singolarità, graziosa stranezza, lo facevano assomigliare a uno di quegli angeli guerrieri, san Michele o san Raffaele, che combattono il diavolo rivestiti di armature d'oro. Sarebbe stato perfino troppo bello senza maschio fulgore delle pupille scure e l'abbronzatura del viso dovuta al sole asiatico.



Era un uomo di statura media, magro, slanciato, nervoso, e sotto l'apparente delicatezza nascondeva muscoli d'acciaio. Quando in occasione di certi balli d'ambasciata indossava il suo costume da nobile maggiorente, fregiato d'oro, costellato di diamanti e di perle, passava tra i gruppi degli ospiti come una splendente apparizione, provocando la gelosia degli uomini e l'amore delle donne, alle quali Prascovia lo rendeva indifferente. Non c'è bisogno di aggiungere che oltre alle doti fisiche il conte possedeva quelle spirituali: accanto alla sua culla avevano vegliato le fate benigne, e perfino la cattiva strega quel giorno si era mostrata di buon umore.

È chiaro che con un simile rivale Octave de Saville aveva poche probabilità di successo e che perciò aveva ben ragione di lasciarsi tranquillamente morire sui cuscini del divano, anche se il fantastico dottor Cherbonneau cercava di far rinascere le sue speranze. L'unica cosa da fare sarebbe stato dimenticare Prascovia, ma era impossibile. E a che scopo rivederla? Octave sentiva che la giovane donna sarebbe rimasta fedele alle sue decisioni, con dolce implacabilità e compassionevole freddezza. Aveva paura che le sue ferite non rimarginate si riaprissero e sanguinassero davanti a colei che innocentemente l'aveva ucciso, e lui non voleva accusarla, quella sua dolce, amata omicida!

(III - Continua)

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