Sunday, June 27, 2010

AVATAR VIII

VIII


Il conte aprì gli occhi e volse intorno uno sguardo indagatore. Vide una camera da letto confortevole ma semplice; un tappeto ocellato, che imitava la pelle del leopardo, copriva il pavimento; davanti alle finestre e alle porte erano appesi tendaggi che Jean aveva leggermente aperto; le pareti erano tappezzate di una carta vellutata verde che simulava il tessuto. Sul caminetto di marmo bianco venato di azzurro figuravano una pendola, costituita da un blocco di marmo nero, con il quadrante di platino sormontato da una statuetta di argento Brunito della Diana di Gabès, riprodotta da Barbedienne, e due coppe antiche anche esse d'argento. Gli unici ornamenti della stanza, un po' triste e severa, erano lo specchio veneziano dove il giorno prima il conte aveva scoperto di non avere più la sua solita faccia, e il ritratto di una donna anziana, opera del Flandrin, che probabilmente rappresentava la madre di Octave. L'arredamento, comodo, ma certamente non sontuoso come quello della villa Labinski, era costituito da un divano, una poltrona Voltaire accanto al caminetto, un tavolo con dei cassetti, coperto di carte e di libri.


«Il signore si alza?»; chiese Jean con quel tono riguardoso che aveva assunto durante la malattia di Octave, mentre porgeva al conte la camicia colorata, i pantaloni di flanella con la staffa e la gandura algerina ossia gli abiti da mattino del suo padrone. Benché il conte fosse riluttante all'idea di indossare gli abiti di un estraneo, per non restare nudo dovette accettare quelli che gli proponeva Jean dopo che ebbe posato i piedi sulla morbida pelle nera che serviva da scendiletto.Appena fu pronto, Jean, il quale non dava assolutamente l'impressione di nutrire dubbi sull'identità del falso Octave de Saville che stava aiutando a vestirsi, gli chiese a che ora vuol fare colazione il signore?».

«Alla solita ora,» rispose il conte che aveva deciso di accettare almeno in apparenza la sua incomprensibile trasformazione per non intralciare i passi che intendeva fare al fine di recuperare la propria personalità. Jean si ritirò e Olaf-de Saville aprì le due lettere che gli erano state portate con i giornali, sperando di trovarvi qualche utile informazione. La prima conteneva amichevoli rimproveri e deplorava il fatto che una così buona relazione fosse stata interrotta senza motivo. La firma gli era sconosciuta. La seconda era del notaio di Octave che lo invitava ad andare a riscuotere con urgenza una quota di rendita scaduta da tempo o per lo meno a suggerire come investire i suoi capitali che restavano improduttivi.

«Si direbbe proprio che l'Octave de Saville di cui mio malgrado rivesto la pelle, esista realmente. Non è affatto un essere fantastico un personaggio di Achim von Arnim o di Clemens Brentano. Ha una casa, degli amici, un notaio, delle rendite da riscuotere: il suo stato civile di gentiluomo è completo. Ciò nonostante mi sembra proprio di essere il conte Olaf Labinski?».

Un'occhiata allo specchio lo convinse che nessuno avrebbe condiviso quell'opinione: alla chiara luce del giorno come a quella incerta delle candele, il riflesso era identico.



Continuando l'ispezione domiciliare, aprì i cassetti del tavolo: in uno trovò dei titoli di proprietà, due banconote da mille franchi e cinque luigi, di cui si appropriò senza scrupoli per condurre in porto la campagna che stava per iniziare. Nell'altro trovò invece un portafogli di cuoio di Russia con una chiusura dotata di un congegno segreto.

Jean si presentò per annunciare il signor Alfred Humbert, il quale entrò direttamente nella stanza con la familiarità di un vecchio amico senza aspettare che il domestico gli portasse la risposta del padrone.

«Buongiorno, Octave» disse il nuovo venuto, un bel giovane dall'aria franca e cordiale. «Che diamine fai, che ti sta succedendo, sei vivo o morto? Non ti si vede più da nessuna parte, se ti scrivono, non rispondi. Dovrei tenerti il broncio, ma in fede mia quando si tratta di affetti dimentico l'amor proprio e vengo a stringerti la mano. Che diavolo! Non si può lasciar morire di malinconia un compagno di collegio in quest'appartamento lugubre come la cella di Carlo V nel monastero di Yuste. Tu immagini di essere malato, ma in realtà ti annoi, ecco tutto. Ti aiuterò io a distrarti: ti obbligherò a venire a un allegra colazione in cui Gustave Raimbaud dà l'addio al celibato».

«No», rispose il marito di Prascovia entrando nella sua parte, «oggi sto peggio del solito; non mi sento in vena. Saprei solo rattristarvi e mettervi in imbarazzo».

«Effettivamente sei molto pallido e hai l'aria stanca: sarà per un'occasione migliore! Scappo, perché sono in ritardo di tre dozzine di ostriche e di una bottiglia di Saturne», avviandosi alla porta. «A Raimbaud dispiacerà non vederti».

Quella visita accrebbe la tristezza del conte. Jean lo prendeva per il suo padrone. Alfred per il suo amico. Ma gli restava da affrontare un'ultima prova: si aprì la porta ed entrò in camera una signora con i capelli striati di bianco che assomigliava in maniera impressionante al ritratto appeso alla parete. Si sedette sul divano e disse al conte:

«Come stai, mio povero Octave? Jean mi ha detto che ieri sera sei tornato tardi e in uno stato di debolezza allarmante. Riguardati, figliolo caro, perché tu sai quanto ti voglia bene nonostante il dolore che mi dà la tua inesplicabile tristezza, della quale non hai mai voluto confidarmi il motivo».

«Non c'è da preoccuparsi, madre mia. Non è niente di grave», rispose Olaf-de Saville. «Oggi mi sento molto meglio».

Rassicurata, la signora de Saville si alzò e uscì, ben sapendo come il figlio si infastidisse quando veniva disturbato troppo a lungo nella sua solitudine.

«Ora sono definitivamente Octave de Saville» esclamò il conte quando l'anziana signora se ne fu andata. «Sua madre mi riconosce e non intuisce che sotto le sembianze del figlio si nasconde l'anima di un estraneo. Forse ormai sono murato per sempre in questo involucro. Che strana prigione per uno spirito il corpo di un altro! È duro però rinunciare ad essere il conte Olaf Labinski, perdere titolo, moglie, ricchezze, e vedersi ridotto a una misera esistenza borghese. Oh! Ma io la strapperò e ne verrò fuori da questa camicia di Nesso che si è attaccata al mio io, e la renderò a brandelli al suo vero possessore. Se tornassi a casa mia? No! Susciterei uno scandalo inutile e il portiere mi butterebbe fuori: ho perso ogni vigore in questa vestaglia da malato!

Coraggio, mettiamoci a cercare, perché devo farmi un'idea della vita di questo Octave de Saville che adesso sono io». Cercò quindi di aprire il portafogli. Toccata casualmente, la molla scattò e dagli scomparti di pelle il conte tirò fuori dapprima diversi fogli coperti da una scrittura fitta e sottile, poi una carta velina sulla quale una mano poco abile, ma fedele, aveva disegnato con la memoria del cuore e una somiglianza di cui non sono sempre capaci i grandi artisti, un ritratto a matita della contessa Prascovia Labinska, riconoscibilissima a prima vista.



Davanti a quella scoperta il conte rimase stupefatto. Alla sorpresa seguì un furente accesso di gelosia. Come mai il ritratto della contessa si trovava nel portacarte segreto di quel giovane sconosciuto? Da dove veniva? Chi l'aveva fatto? Chi gliel'aveva dato? Quella Prascovia, così religiosamente adorata sarebbe scesa dal suo cielo d'amore per un volgare intrigo? Per quale infernale derisione, lui il marito si trovava incarnato nel corpo dell'amante di quella donna, fino allora creduta così pura? Dopo esserne stato lo sposo, ne sarebbe diventato lo spasimante! Ironica metamorfosi, capovolgimento di situazione da farti impazzire; si sarebbe potuto ingannare da solo, essere al tempo stesso Clitandro e George Dandin!

Tutte queste idee gli ronzavano tumultuosamente in testa; sentiva che stava per perdere la ragione e per ritrovare una certa calma fece un estremo sforzo di volontà. Senza ascoltare Jean, il quale l'avvertiva che la colazione era servita, continuò con nervosa trepidazione a esaminare il misterioso portacarte. I fogli costituivano una specie di diario psicologico, abbandonato e ripreso in diverse epoche. Eccone alcuni frammenti, divorati dal conte con ansiosa curiosità: «Mai lei mi amerà, mai, mai! Ho letto nei suoi occhi così dolci quella sentenza così crudele che Dante giudicò non vi fosse nulla di più dolorosamente appropriato da incidere sulla porta della Città dolente: "Perdete ogni speranza". Che cosa ho fatto a Dio per essere dannato da vivo? Domani, dopodomani, sempre, sarà la stessa cosa! Gli astri possono incrociare le loro orbite, le stelle in congiunzione formare nodi ma niente nella mia sorte cambierà. Con una parola ha fatto svanire il sogno, con un gesto ha spezzato l'ala alla chimera. Le favolose combinazioni delle impossibilità non mi offrono nessuna probabilità. Anche se giocassi mille volte gli stessi numeri sulla ruota della fortuna, non uscirebbero mai. Non ci sono numeri vincenti per me!».

«Ah me sventurato! So che il paradiso mi è chiuso, eppure resto stupidamente seduto sulla soglia, con le spalle appoggiate alla porta che non si aprirà, e piango in silenzio, senza singulti, senza sforzo, come se i miei occhi fossero sorgenti d'acqua viva. Non ho il coraggio di alzarmi e di addentrarmi nell'immenso deserto o nella tumultuosa Babele degli uomini».

«A volte, quando di notte non posso dormire, penso a Prascovia. Se dormo, la sogno. Com'era bella quel giorno a Firenze, nel giardino di villa Salviati! Quel vestito bianco e quei nastri neri, com'erano seducenti e funebri! Il bianco per lei, il nero per me! A volte i nastri, mossi dal vento, formavano una croce su quel fondo di un bianco splendente. Uno spirito invisibile diceva sottovoce la messa da morto del mio cuore».

«Se per un qualche inaudito sovvertimento la mia fronte dovesse cingersi della corona degli imperatori e dei califfi, se la terra dissanguasse per me le sue vene d'oro, se le miniere di diamanti di Golconda e di Bizapura mi lasciassero frugare nelle loro ganghe scintillanti, se sotto le mie dita risuonasse la lira di Byron, se i più perfetti capolavori dell'arte antica e moderna concedessero la loro bellezza, se scoprissi un modo, ebbene, che vantaggi ne avrei?».

«Da che cosa mai dipende il destino! Se avessi avuto voglia di andare a Costantinopoli, non l'avrei incontrata. Invece resto a Firenze, la vedo e muoio!».

«Mi ucciderei volentieri, ma lei respira nell'aria in cui viviamo, e forse le mie labbra avide respireranno - oh ineffabile felicità! - un lontano effluvio del suo alito profumato. E poi la mia anima colpevole potrebbe essere condannata a un pianeta d'esilio e perderei la possibilità di farmi amare da lei nell'altra vita. Essere separati anche nell'al di là, lei in paradiso io in inferno: che tremendo pensiero!».

«Perché devo amare proprio la sola donna che non mi può amare? Altre, considerate belle e per di più libere, mi sorridevano con il loro più tenero sorriso e parevano aspettarsi una dichiarazione che non riuscivo a fare. Com'è felice lui! Per quale sublime vita anteriore Dio lo ricompensa con il magnifico dono di questo amore?».

...Era inutile seguitare a leggere. Il sospetto che il ritratto di Prascovia aveva potuto risvegliare nel conte, era svanito fin dalle prime righe di quelle tristi confidenze. Capì che l'immagine diletta, mille volte ricominciata, era stata vagheggiata lontano dal modello, con l'instancabile pazienza dell'amore infelice, e che un'adorazione senza speranza si inginocchiava davanti alla madonna di una mistica cappellina.

«Ma se quell'Octave avesse fatto un patto con il diavolo per sottrarmi il corpo e carpire sotto i miei sembianti l'amore di Prascovia!».



Il conte, per quanto stranamente turbato, finì per lasciar cadere una simile ipotesi, troppo inverosimile nel XIX secolo.

Sorridendo perfino della propria credulità consumò la colazione ormai fredda che Jean gli aveva servito. Poi si vestì e chiese la carrozza. Quando fu pronta, si fece portare dal dottor Balthazar Cherbonneau. Attraversò quelle sale dove il giorno prima era entrato chiamandosi ancora conte Olaf Labinski e da dove era uscito salutato da tutti come Octave de Saville.

Il dottore era seduto come al solito sul divano dell'ultima stanza tenendosi un piede in mano, e pareva immerso in una profonda meditazione. Sentendo il passo del conte, sollevò il capo.

«Ah! È lei, mio caro Octave. Stavo per passare da casa sua, ma è buon segno quando il malato viene a trovare il medico».

«Sempre Octave!», Esclamò il conte. «Credo che impazzirò di rabbia!» Poi, incrociando le braccia, si piazzò davanti al conte fissandolo con uno sguardo terribile:

«Lei sa bene, signor Balthazar Cherbonneau, che io non sono Octave, bensì il conte Olaf Labinski, dal momento che ieri sera, proprio qui, lei ha rubato la mia pelle servendosi delle sue esotiche stregonerie».

A quelle parole il dottore si mise a ridere fragorosamente, si rovesciò sui cuscini e si tenne il fianco con le mani per trattenere la sua convulsa allegria.


«Moderi questa gaiezza fuori luogo della quale potrebbe pentirsi, dottore. Sto parlando seriamente».

«Pazienza! Pazienza! Ciò dimostra che l'insensibilità e l'ipocondria per cui la curavo, ora si stanno trasformando in demenza. Dovremo cambiare cura, ecco tutto».


Non so che cosa mi trattenga, dottore del diavolo, dallo strangolarla con le mie stesse mani», gridò il conte avanzando verso Cherbonneau.

Il dottore sorrise della minaccia del conte e lo toccò con la punta di una bacchetta d'acciaio. Olaf-de Saville ne ebbe una scossa terrible e credette di avere un braccio rotto.

«Oh! Noi sappiamo come domare i malati quando ricalcitrano», disse il dottore fissandolo con quello sguardo gelido come una doccia, che rende docili i pazzi e fa accucciare i leoni. «Torni a casa, faccia un bagno: la sovreccitazione si calmerà».

Stordito dalla scossa elettrica, Octave-de Saville uscì dalla casa del dottor Cherbonneau più incerto e più turbato che mai. Si fece condurre a Passy, dal dottor B***, per un consulto.

«Sono in preda a una strana allucinazione», disse al celebre medico. «Quando mi guardo in uno specchio, il mio viso non mi appare con i soliti tratti; la forma degli oggetti che mi circondano è cambiata; non riconosco né le pareti né i mobili della mia camera; mi sembra di essere una persona che non sono io».

«In che modo si vede?»; chiese il medico. «L'errore può dipendere dagli occhi o dal cervello».

«Mi vedo con i capelli neri, gli occhi azzurro scuro, un viso pallido incorniciato dalla barba».

«I dati di un passaporto non potrebbero essere più esatti: lei non soffre né di allucinazione mentale né di disturbi della vista. È infatti esattamente come dice».

«Ma no! Io ho in realtà i capelli biondi, gli occhi neri, un incarnato scuro e baffi sottili, all'ungherese».

In tal caso», rispose il medico, «ci troviamo di fronte a una leggera alterazione delle facoltà intellettive».

«Eppure, dottore, non sono affatto pazzo».

«Non c'è dubbio. Solo le persone dotate di senno vengono da me spontaneamente. Un po' di stanchezza, qualche eccesso nello studio o nei piaceri avranno provocato il suo disturbo. Lei si sbaglia: la visione corrisponde alla realtà, è l'idea ad essere chimerica. Invece di essere un biondo che si vede bruno, lei è un bruno che si crede biondo».


«Eppure sono sicuro di essere il conte Olaf Labinski, mentre da ieri tutti mi chiamano Octave de Saville».

«È appunto come dicevo io», replicò il dottore. «Lei è il signor de Saville e crede di essere il conte Labinski, che ricordo di aver visto e che effettivamente è biondo. Ciò spiega perfettamente perché lei si veda un viso diverso nello specchio. Quel viso che è il suo, non corrisponde alla sua idea personale e la sorprende. Rifletta un po': tutti la chiamano Octave de Saville e quindi non condividono il suo parere. Venga qui a passare una quindicina di giorni: i bagni, il riposo, le passeggiate tra gli alberi faranno svanire la sua incresciosa impressione».

Il conte chinò il capo e promise di tornare. Non sapeva più a che cosa credere. Andò di nuovo nell'appartamento della rue Saint-Lazare, e per caso vide sul tavolo il biglietto d'invito della contessa Labinska, che Octave aveva mostrato al signor Cherbonneau.

«Con questo talismano», esclamò, «domani la potrò vedere!».

(VIII - Continua)

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