Tuesday, June 22, 2010

AVATAR VII

VII

Rimasto solo con il corpo di Octave de Saville, abitato dall'anima del conte Olaf Labinski, il dottor Cherbonneau si accinse a restituire quella forma inerte alla vita normale. Dopo che ebbe fatto qualche gesto, Olaf de Saville (ci sia concesso di associare i due nomi per indicare un personaggio doppio) emerse come un fantasma dal limbo del sonno profondo, o meglio dalla catalessi che lo inchiodava rigido e immobile in un angolo del divano.

Si alzò con un movimento automatico, non ancora guidato dalla volontà, e in preda a una vertigine non del tutto scomparsa. Gli oggetti gli vacillavano intorno, le incarnazioni di Visnù danzavano la sarabanda lungo le pareti, il dottor Cherbonneau gli appariva con le sembianze del sannyasi di Elefanta, agitando le braccia come ali d'uccello e roteando le pupille azzurre dentro orbite di rughe scure, simili a cerchi di occhiali. Gli strani spettacoli ai quali aveva assistito prima di cadere nell'annientamento magnetico continuavano ad agire sul suo raziocinio e solo lentamente ritrovava il senso della realtà: era come un dormiente che risvegliato bruscamente da un incubo prenda ancora per fantasmi le vaghe forme umane degli abiti sparsi sulle sedie, e per fiammeggianti occhi di ciclope le coppe di rame delle tende semplicemente illuminate dal riflesso del lucignolo.

A poco a poco quella fantasmagoria svanì e tutto riprese l'aspetto naturale. Il signor Baltahazar Cherbonneau non fu più un penitente indiano, ma un semplice dottore in medicina che rivolgeva al proprio cliente un sorriso banalmente benevolo.



«Il signor conte è soddisfatto degli esperimenti che ho avuto l'onore di compiere davanti ai suoi occhi?», gli stava dicendo con un tono di ossequiosa umiltà in cui era possibile individuare una leggera sfumatura di ironia. «Oso sperare che non debba rammaricarsi della sua serata e che se ne andrà convinto che tutto quello che si racconta sul magnetismo non è né fola né ciarlataneria, come sostiene la scienza ufficiale».

Olaf-de Saville rispose con un cenno di assenso e uscì dall'appartamento accompagnato dal dottor Cherbonneau, che ad ogni porta gli faceva dei profondi inchini.

Il brougham venne avanti rasentando il marciapiede e l'anima del marito della contessa Labinska vi salì con il corpo di Octave senza rendersi ben conto che non si trattava né del suo domestico né della sua carrozza.

Il cocchiere gli chiese dove volesse andare.

«A casa», rispose Olaf-de Saville, confusamente stupito di non riconoscere la voce del servitore che di solito gli rivolgeva quella domanda con un forte accento ungherese.

Il brougham era tappezzato di damasco verde scuro, mentre la sua carrozza era imbottita di raso color oro e il conte si stupiva di quella differenza, pur accettandola come si fa in sogno quando gli oggetti familiari si presentano sotto un aspetto del tutto diverso, ma pur sempre riconoscibile. Si sentiva anche più piccolo del solito; inoltre gli pareva di essere arrivato con un vestito elegante, o senza ricordare di essersi cambiato si vedeva indosso un leggero soprabito estivo che non aveva mai fatto parte del suo guardaroba. Si sentiva stranamente a disagio e i suoi pensieri, così lucidi al mattino, erano penosamente confusi. Attribuendo quell'insolito stato agli strani scenari della serata, smise di pensarci e appoggiando la testa a un angolo della carrozza si abbandonò a un instabile fantasticare, a una vaga sonnolenza tra veglia e sogno.

Tornò in sé quando il cavallo si fermò bruscamente e la voce del cocchiere gridò: «La porta!». Abbassò il vetro, mise fuori la testa e alla luce di un lampione vide una strada sconosciuta e una casa che non era la sua.

«Dove diavolo mi hai portato, animale?» esclamò. «Ti sembra forse di essere in Faubourg Saint-Honoré, alla villa Labinski?»

Mi scusi, signore, non avevo capito», borbottò il cocchiere facendo prendere al cavallo la direzione indicata.

Durante il tragitto, il conte, con il suo nuovo aspetto, si fece diverse domande alle quali non era in grado di rispondere. Come mai la sua carrozza se n'era andata senza di lui, dal momento che aveva dato ordine di aspettarlo? E come mai lui si trovava nella carrozza di un altro? Suppose che un lieve rialzo febbrile alterasse le sue percezioni, oppure che il medico taumaturgo, per impressionare più fortemente la sua credulità, gli avesse fatto respirare durante il sonno qualche flacone di hascisc o di altra droga allucinogena, i cui effetti si sarebbero dissipati con una notte di riposo.

La carrozza arrivò alla villa Labinski: invitato ad aprire la porta il portiere rifiutò dicendo che non era sera di ricevimento, che il signore era tornato da più di un'ora e la signora si era ritirata nei suoi appartamenti.

«Birbante, sei ubriaco o pazzo?», disse Olaf-de Saville respingendo il colosso che si ergeva gigantesco sulla soglia del portone socchiuso come una di quelle statue di bronzo che nelle fiabe arabe vietano ai cavalieri erranti l'accesso dei castelli incantati.



«Ubriaco o pazzo sarà lei, mio caro signore», ribatté il portiere che da scarlatto com'era di solito si era fatto blu di collera.

«Miserabile!», ruggì Olaf-de Saville, "se non volessi trascendere..."».

«Chiuda la bocca se non vuole che la faccia a pezzi sulle mie ginocchia e la butti sul marciapiede», replicò il gigante aprendo una mano più grande e più grossa della mano di gesso esposta nella vetrina del guantaio della rue Richelieu. «È meglio non fare il prepotente con me, ragazzino, solo perché hai bevuto un po' di champagne di troppo».

Olaf-de Saville, esasperato spinse il portiere con una tale rudezza che riuscì a entrare nell'androne. Al rumore dell'alterco accorsero alcuni valletti ancora in piedi.

«Ti caccio via, bestione, brigante, scellerato! Devi andartene da qui questa notte stessa. Vattene via o ti ammazzerò come un cane arrabbiato. Non mi costringere a versare l'ignobile sangue di un lacchè».

E il conte, spossessato del suo corpo, si slanciò con gli occhi iniettati di sangue, la schiuma alla bocca, i pugni contratti, verso l'enorme portiere. Questi, prendendo tutte e due le mani dell'aggressore in una delle sue, quasi le stritolò nella morsa delle dita tozze, carnose e nodose come quelle di un aguzzino medioevale.

«Andiamo, via, un po' di calma», diceva il gigante, in fin dei conti un bonaccione, che non aveva più nulla da temere dal suo avversario e lo scuoteva solo un po' per tenerlo a bada. «Ma le sembra una cosa di buon senso che uno si riduca in uno stato simile quando porta vestiti da signore, e venga a far schiamazzi notturni nelle case rispettabili? Bisogna aver riguardi con il vino! Chissà com'era forte quello che l'ha ubriacata così! Per questo non l'ammazzo! Mi contenterò di depositarla delicatamente per la strada dove la ronda la raccoglierà, se non la pianta di far putiferio. Stare un po' al fresco le chiarirà le idee».

«Infami!», gridò Olaf-de Saville rivolgendosi ai valletti. «Voi lasciate che questa immonda canaglia insulti così il vostro padrone, il nobile conte Labinski!»

A quel nome il servitorame schiamazzò in coro fragorosamente. Uno scoppio di risa enorme, omerico, convulso, scosse tutti quei petti gallonati: «Il signorino crede di essere il conte Labinski Ah! ah! ih! ih! Questa sì che è buona!».

Un sudore gelido bagnò le tempie di Olaf-de Saville. Un pensiero lancinante gli traversò il cervello come una lama d'acciaio e si sentì come paralizzare. Smarra gli aveva messo un ginocchio sul petto oppure era quella la vita reale?. La sua ragione era sprofondata nell'oceano senza fondo del magnetismo oppure era vittima di qualche diabolica macchinazione? Nessuno dei suoi servitori sempre così tremanti, così sottomessi, così umili davanti a lui lo riconosceva. Gli avevano forse cambiato il corpo come gli abiti e la carrozza?".

Per convincersi di non essere il conte Labinski» disse uno dei più insolenti della conventicola, «guardi laggiù, ecco proprio lui in persona che scende la scalinata, richiamato dallo schiamazzo della sua scenata».

Sempre prigioniero del portiere, il conte si girò verso il fondo del cortile e vide in piedi, sotto il portico, un giovane d'aspetto snello ed elegante, viso ovale, occhi neri, naso aquilino, baffi sottili, che non era altri che lui, oppure il suo spettro modellato dal diavolo, così somigliante da trarre in inganno.



Il portiere liberò le mani che teneva prigioniere. I valletti si schierarono rispettosamente lungo il muro, con gli occhi bassi, le mani lungo il corpo, perfettamente immobili come gli icoglan all'arrivo del padiscià, rendendo a quel fantasma gli onori che rifiutavano all'autentico conte.

Il marito di Prascovia, benché intrepido come uno slavo, il che è tutto dire, provò un indicibile spavento all'avvicinarsi di quel Menecmo che, più terribile del Menecmo teatrale, si introduceva nella vita reale rendendo irriconoscibile il suo gemello.

Gli tornò in mente un'antica leggenda di famiglia che accrebbe ulteriormente il suo terrore. Ogni volta che un Labinski doveva morire, veniva avvertito dall'apparizione di un fantasma in tutto simile a lui. Fra le popolazioni nordiche, vedere il proprio doppio, sia pure in sogno, ha sempre rappresentato un presagio funesto, e quando l'intrepido guerriero del Caucaso si vide davanti il proprio io, fu colto da un invincibile superstizioso terrore: lui che avrebbe infilato il braccio nella bocca dei cannoni pronti a sparare, indietreggiò davanti a se stesso.

Octave-Labinski si avvicinò al suo vecchio corpo in cui si dibatteva, si indignava e rabbrividiva l'anima del conte e con gelida e altera cortesia gli disse: «Signore, smetta di esporsi così davanti ai servitori. Il signor conte Labinski, se vuole parlargli, riceve da mezzogiorno alle due. La signora contessa riceve il giovedì le persone che hanno avuto l'onore di esserle presentate».

Dopo questa frase proferita lentamente e calcando ogni sillaba, il falso conte si ritirò con passo tranquillo e le porte si richiusero dietro di lui.

Olaf-de Saville fu trasportato svenuto nella sua carrozza. Quando riprese i sensi era sdraiato su un letto che non assomigliava al suo, in una camera dove non ricordava di essere mai entrato. Accanto a lui c'era un domestico sconosciuto che gli teneva sollevata la testa e gli faceva respirare un flacone di etere.

«Il signore si sente meglio?», chiese Jean al conte che scambiava per il proprio padrone.

«Sì» rispose Olaf-de Saville «era solo una debolezza passeggera».

«Posso ritirarmi o è meglio che vegli, signore?».

«No, lasciami solo, ma prima di andartene accendi i lumi accanto allo specchio».

«Il signore non teme che un chiarore così forte le impedisca di dormire?».

«Assolutamente no. E poi non ho ancora sonno».

«Io non andrò a letto, e se il signore ha bisogno di qualcosa, accorrerò appena suona il campanello», lo rassicurò Jean preoccupato dal pallore e dai tratti sconvolti del conte.

Quando Jean se ne fu andato dopo aver acceso le candele, il conte si precipitò allo specchio e nella profondità del cristallo dove scintillavano tremolando le luci, vide una faccia giovane, dolce e triste, dai folti capelli neri, gli occhi di un azzurro cupo, le guance pallide, una serica barba scura, un viso che non era il suo e che lo guardava sorpreso dal fondo dello specchio.

In un primo momento si sforzò di credere che un burlone di cattivo gusto avesse inquadrato il proprio viso nella cornice incrostata di rame e madreperla dello specchio veneziano. Fece scorrere la mano sul retro, ma non sentì che il legno: non c'era nessuno.

Si tastò le mani e le sentì più magre, più lunghe, con più venature. All'anulare spiccava un grosso anello in cui era incastonata un'avventurina con uno stemma inciso: era uno scudo con un motivo di fauci alternate a strisce d'argento e una corona baronale come sigillo. Quell'anello non era mai appartenuto al conte che aveva un blasone d'oro con un'aquila che spicca il volo, nera come il becco, le zampe e gli artigli, il tutto sormontato da una corona comitale. Si frugò in tasca e trovò un piccolo portafogli con dei biglietti da visita intestati a «Octave de Saville».

La risata dei valletti alla villa Labinski, l'apparizione del suo doppio, il viso sconosciuto che si era sostituito al suo nello specchio potevano essere, a rigore, le fantasie di un cervello malato, ma quegli abiti diversi, l'anello che si sfilava dal dito erano prove materiali, tangibili, testimonianze irrefutabili. A sua insaputa si era operata in lui una completa metamorfosi; un mago di sicuro, forse un demone, lo aveva derubato del corpo, del titolo di nobiltà, del nome, di tutta la sua personalità, lasciandogli solo l'anima che però non aveva modo di manifestare.




Gli tornarono in mente le storie fantastiche di Peter Schlemihl e della Notte di San Silvestro, ma i personaggi di Lamotte-Fouqué e di Hoffmann si erano limitati a perdere la propria ombra o il proprio riflesso: anche se l'essere curiosamente privati di una proiezione che tutti possiedono poteva ispirare inquietanti sospetti, se non altro nessuno poteva negare la loro identità.



La sua condizione era ben altrimenti catastrofica: con quel corpo in cui era imprigionato non poteva pretendere al titolo di conte Labinski. Sarebbe passato agli occhi di tutti per un impudente impostore, o per lo meno per un pazzo. Perfino sua moglie non lo avrebbe riconosciuto sotto quelle apparenze menzognere. Come dimostrare la propria identità? C'erano, è vero, mille circostanze di natura privata, mille particolari segreti che solo lui aveva e che, ricordati a Prascovia, le avrebbero fatto riconoscere l'anima del marito sotto quel travestimento. Ma a che sarebbe servita quell'unica certezza, ammesso che riuscisse a farla nascere, contro l'opinione unanime? Era realmente e totalmente spossessato del proprio io.

Altro motivo d'ansia: la sua trasformazione si limitava al cambiamento esteriore della figura e del volto, oppure si era realmente trasferito nel corpo di un altro? In tal caso, che ne era stato del suo? Era stato bruciato in un pozzo di calce viva o se n'era impossessato un ladro temerario? Il doppio che aveva visto alla villa Labinski poteva essere uno spettro, una visione ma anche un essere materiale vivente, che si era introdotto nella pelle sottrattagli con diabolica abilità da quel medico con la faccia da fachiro.

Un'idea tremenda gli azzannò il cuore con denti di vipera: «Quel finto conte Labinski, che ha assunto le mie sembianze grazie al demonio, quel vampiro che ora abita nel mio palazzo al quale i miei servitori ubbidiscono a mio danno, forse a quest'ora introduce il suo piede forcuto nella camera dove sono sempre penetrato con il cuore palpitante come la prima sera, e Prascovia gli sorride forse dolcemente, e divinamente arrossendo posa la sua incantevole testa su quella spalla marchiata dall'artiglio del diavolo, credendo che io sia quella larva bugiarda, quel fantasma, quello spettro, quel repellente figlio della notte e dell'inferno. Se corressi a casa, se appiccassi il fuoco per gridare tra le fiamme a Prascovia: "Ti stanno ingannando, non è il tuo diletto Olaf colui che stringi sul cuore! Innocentemente stai commettendo una colpa abominevole, che la mia anima disperata seguiterà a ricordare quando le mani del tempo si saranno stancate di girare e rigirare la sua clessidra!"».

Ondate di fiamma salivano al cervello del conte che emetteva urla inarticolate di rabbia, si mordeva le mani, girava come una belva per la camera. La follia stava per sopraffare l'oscura coscienza di sé che ancora gli restava. Corse alla toeletta di Octave, riempì una catinella d'acqua e vi tuffò la testa che emerse fumante da quel bagno gelato.

Recuperò il sangue freddo. Si disse che erano passati i tempi della magia e della stregoneria, che solo la morte liberava l'anima dal corpo, che in piena Parigi non si poteva far comparire in quel modo un conte polacco che vantava un credito di svariati milioni presso la banca Rotschild, imparentato con le più grandi famiglie, marito molto amato di una donna alla moda, decorato dell'ordine di Sant'Andrea di prima classe, e che si trattava sicuramente di uno scherzo di cattivo gusto del signor Balthazar Cherbonneau, facilmente spiegabile come gli spauracchi dei romanzi di Anne Radcliffe.

Sentendosi a pezzi, si buttò sul letto di Octave e si addormentò di un sonno pesante, opaco, simile alla morte, che durava ancora quando Jean venne a posare sul tavolo lettere e giornali, credendo che il padrone fosse ormai sveglio.

(VII - Continua)

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