Friday, August 20, 2010

AVATAR XII - Fine

XII


            Durante il tragitto fra il Bois de Boulogne e la Rue Regard, Octave de Saville disse al dottor Cherbonneau:
            «Mio caro dottore, ancora una volta metterò alla prova la sua scienza: le nostre anime devono tornare nella loro rispettiva sede. Per lei non dev'essere difficile. Spero che il signor conte Labinski non gliene vorrà per avergli fatto scambiare un palazzo con una capanna e aver dovuto albergare per qualche ora la sua brillante personalità nel mio povero corpo. D'altronde, lei ha tali poteri da non temere vendette».
            Dopo aver fatto un cenno di assenso, il dottor Balthazar Cherbonneau disse: «L'operazione sarà molto più semplice dell'altra volta: gli impercettibili filamenti che trattengono l'anima al vostro corpo sono stati spezzati da poco e non hanno ancora avuto tempo di riallacciarsi. Le vostre volontà non frapporranno quell'ostacolo che l'istintiva resistenza del magnetizzato oppone al magnetizzatore. Il signor conte vorrà perdonare a un vecchio scienziato come me se non ha potuto resistere al piacere di effettuare un esperimento per il quale non si trovano molti soggetti, poiché in fin dei conti il tentativo è servito solo a confermare in modo inoppugnabile una virtù che spinge la sensibilità fino alla divinazione e trionfa laddove ogni altro avrebbe ceduto le armi. Potrà considerare questa passeggera trasformazione come un sogno bizzarro, e forse in seguito non le dispiacerà aver provato l'insolita sensazione che pochissimi uomini hanno conosciuto, di aver albergato in due corpi. La metempsicosi non è una scienza recente, ma prima di trasmigrare in un'altra esistenza le anime bevono alla coppa dell'oblio e non tutti possono ricordare, come Pitagora, di aver assistito alla guerra di Troia».


            «Il vantaggio di rientrare in possesso della mia individualità», rispose garbatamente il conte, «equivale alla contrarietà di esserne stato espropriato, e ciò sia detto senza voler offendere il signor Octave de Saville, quale sono tuttora e presto non sarò più».
            Octave sorrise con le labbra del conte Labinski a quella frase che gli giungeva solo attraverso un involucro estraneo, e il silenzio regnò fra i tre personaggi ai quali l'anomalia della situazione rendeva difficile ogni conversazione.
            Il povero Octave pensava alla sua speranza svanita, e i suoi pensieri, bisogna pure ammetterlo, non erano rosei. Come tutti gli amanti respinti si chiedeva perché non fosse amato come se l'amore avesse un perché! - La sola ragione che se ne possa dare è il perché no, risposta logica nella sua testarda laconicità, che le donne oppongono a tutte le domande imbarazzanti. Tuttavia si riconosceva vinto e sentiva che la molla vitale, per un istante ricaricata in lui dal dottor Cherbonneau, era di nuovo spezzata e gemeva nel suo cuore come quella di un orologio caduto a terra. Octave non avrebbe voluto dare alla madre il dolore del suo suicidio e cercava un posto dove spegnersi silenziosamente del suo male a cui la scienza ignara non era in grado di dare un nome plausibile. Se fosse stato pittore, poeta o musicista avrebbe cristallizzato il suo dolore in qualche capolavoro, e Prascovia, di bianco vestita, aureolata di stelle, simile alla Beatrice di Dante, avrebbe aleggiato sul suo estro creativo come un angelo luminoso. 



Ma come si è detto all'inizio della nostra storia, benché colto e raffinato, Octave non era uno di quegli spiriti eletti che lasciano traccia del loro passaggio su questa terra. Anima oscuramente sublime, non sapeva che amare e morire.
              La carrozza entrò nel cortile del vecchio edificio della Rue du Regard, dal cui selciato spuntava un'erba verde che portava l'impronta dei passi dei visitatori, e che gli alti muri grigi delle costruzioni inondavano di ombre fredde come quelle proiettate dalle arcate dei chiostri. Il Silenzio e l'Immobilità vegliavano sulla soglia come due statue invisibili per proteggere la meditazione del saggio.
         Dopo che Octave e il conte furono scesi, il dottore saltò giù dal predellino più agilmente di quanto fosse logico aspettarsi da una persona di età avanzata; rifiutando di appoggiarsi al braccio che il palafreniere gli offriva con quella cortesia che i lacché delle grandi famiglie ostentano nei confronti delle persone deboli e anziane.
             Appena la doppia porta si fu richiusa alle loro spalle, Olaf e Octave si sentirono avvolti dalla calda atmosfera che ricordava al dottore quella dell'India e nella quale solo lui riusciva a respirare, mentre appariva soffocante a chi non si fosse arrostito come lui al sole tropicale. Le incarnazioni di Visnù seguitavano a fare smorfie dalle loro cornici più bizzarre alla luce del sole che a quella artificiale. Siva, il dio azzurro sogghignava sul suo zoccolo, e Durga, mordendosi le labbra carnose con i suoi denti di cinghiale, sembrava scuotesse il suo rosario di teschi. L'appartamento aveva la stessa aria misteriosa e magica.




           














          
Il dottor Cherbonneau condusse i due uomini nella stanza dove era stata effettuata la prima trasformazione, fece girare il disco di vetro della macchina elettrica, agitò le asticciole di ferro della tinozza mesmerica, aprì le bocche dell'aria calda per far salire rapidamente la temperatura, lesse due o tre righe su papiri così antichi da far pensare a vecchie scorze sul punto di polverizzarsi, e dopo qualche minuto disse a Octave e al conte:
              «Signori, eccomi a voi. Volete cominciare?».
            Mentre il dottore era intento ai suoi preparativi, pensieri inquietanti passavano per la mente del conte.
            «Quando sarò addormentato, che farà della mia anima questo vecchio mago con la faccia di scimmia, che potrebbe anche essere il diavolo in persona? La restituirà al mio corpo o la porterà con sé all'inferno? Questo scambio che dovrebbe rendermi ciò che mi appartiene, non sarà magari un machiavellico espediente per operare una stregoneria di cui mi sfugge il senso? La mia situazione comunque non potrebbe certo peggiorare. Octave possiede il mio corpo, e come diceva giustamente stamani, e io lo rivendicassi con il mio viso di adesso, mi farei rinchiudere in manicomio. Se avesse voluto sbarazzarsi definitivamente di me, gli sarebbe bastato affondare la punta della spada: ero disarmato, alla sua mercé. La giustizia degli uomini non poteva intervenire: le formalità del duello erano state perfettamente rispettate e tutto si era svolto secondo le consuetudini. Suvvia! Pensiamo a Prascovia e niente terrori puerili! Facciamo ricorso all'ultimo mezzo che mi resta per riconquistarla!» E come Octave, prese l'asticella di ferro che il dottor Balthazar Cherbonneau gli porgeva.



            Folgorati dai conduttori metallici che contenevano abbondante fluido magnetico, i due giovani piombarono poco dopo in un stato di sopore così profondo che chiunque non fosse stato preavvertito li avrebbe creduti morti. Il dottore fece i gesti rituali, pronunciò le stesse sillabe della prima volta e subito dopo sopra Octave e il conte apparvero in un tremolio luminoso due piccole scintille: il dottore riportò nella sua primitiva dimora l'anima del conte Olaf Labinski. Con rapido volo essa seguì il gesto del magnetizzatore.



            Nel frattempo, l'anima di Octave si allontanava lentamente dal corpo di Olaf, e invece di raggiungere il suo, si innalzava, si innalzava come se fosse stata lieta di essere libera, e sembrava che non pensasse affatto a rientrare nella sua prigione.



            Il dottore ebbe pietà di quella Psiche dalle ali palpitanti e si chiese se fosse un bene riportarla verso questa valle di lacrime. In quell'attimo di esitazione, l'anima seguitò a salire. Ricordandosi del proprio compito, il signor Cherbonneau ripeté con accento più imperioso l'irresistibile monosillabo e fece un gesto fulminante per imporre il suo volere. Ma la piccola luce tremolante era già fuori dalla sua sfera d'attrazione e scomparve attraverso il vetro più alto della finestra.
            Il dottore rinunciò a ogni sforzo che sapeva superfluo e svegliò il conte. Questi vedendosi in uno specchio con quelli che erano sempre stati i suoi tratti, gridò di gioia, lanciò un'occhiata sul corpo sempre immobile di Octave come per assicurarsi che si era definitivamente liberato da quell'involucro, e si precipitò fuori dopo aver salutato il dottor Cherbonneau con un cenno della mano.
            Qualche istante dopo si udì nell'androne il sordo rotolio di una carrozza e il dottore rimase solo faccia a faccia con il cadavere di Octave de Saville.
            «Per la proboscide di Ganesa!», esclamò all'allievo del bramino di Elefanta quando il conte se ne fu andato. «Guarda un po' che incresciosa situazione! Ho aperto la porta della gabbia, l'uccello è volato via ed eccolo già fuori dalla sfera di questo mondo, così lontano che perfino il sannyasi Brahma-Logum non potrebbe riprenderlo. E intanto io resto con un cadavere sulle braccia. Posso anche dissolverlo in un bagno corrosivo così potente da non lasciarne nemmeno un atomo, oppure farne in poche ore una mummia di faraone come quelle rinchiuse nei sarcofagi decorati di geroglifici, ma poi comincerebbero a fare inchieste, a perquisirmi le casse, e io verrei sottoposto a mille seccanti interrogatori...».
            A questo punto, al dottore venne in mente un'idea luminosa: afferrò una penna e tracciò rapidamente alcune righe su un foglio di carta che poi chiuse nel cassetto del tavolo. Sul foglio c'era scritto:
            «Non avendo né parenti stretti né collaterali, lascio in eredità tutti i miei beni al signor Octave de Saville per il quale nutro un affetto particolare, a condizione che egli devolva un lascito di centomila franchi all'ospedale brahaminico di Ceylon per gli animali vecchi, deboli o malati, che assicuri una rendita vitalizia di milleduecento franchi al mio domestico indiano e al mio domestico inglese, che affidi alla biblioteca Mazarine il manoscritto delle leggi di Manù».
            Questo testamento di un vivo a favore di un morto non è certamente uno dei particolari meno curiosi della nostra storia reale, per quanto inverosimile appaia. Ma si tratta di una stranezza facilmente spiegabile.
            Il dottore toccò il corpo ancora caldo di Octave de Saville, con aria disgustata si guardò nello specchio il viso rugoso, scuro e ruvido come una pelle di zigrino, e mentre accennava su di sé il gesto con cui ci si sbarazza di un vecchio abito quando il sarto ne porta uno nuovo mormorò la formula del sannyasi Brahma-Logum.



            Immediatamente il corpo del dottor Balthazar Cherbonneau cadde come fulminato sul tappeto e quello di Octave de Saville si rialzò forte scattante, pieno di vita.
            Per qualche minuto Octave Cherbonneau rimase in piedi davanti a quella spoglia magra, ossuta e livida, che ormai svigorita e senz'anima mostrò in poco tempo i segni estremi della senilità, assumendo l'aspetto di un cadavere.



            «Addio, povero brandello umano, miserevole straccio con gomiti bucati e la trama lisa, che ho trascinato per settant'anni attraverso le cinque parti del globo! Mi hai servito a dovere e non ti lascio senza un certo rimpianto. Vivendo a lungo insieme, ci si abitua l'uno all'altro, ma con questo giovane involucro presto irrobustito dalla mia scienza, potrò studiare, lavorare, leggere ancora qualche parola del gran libro, senza che la morte la interrompa al paragrafo più interessante dicendo: "Ora basta"».
            Dopo aver rivolto a se stesso quest'orazione funebre, Octave-Cherbonneau uscì con passo tranquillo per andare a prender possesso della sua nuova esistenza.
            Nel frattempo il conte Olaf Labinki era tornato alla villa ed aveva subito fatto chiedere se la contessa poteva riceverlo.
            La trovò seduta su un sedile di muschio della serra in mezzo a un'autentica foresta di piante esotiche e tropicali. Le vetrate semisollevate lasciavano entrare un'aria tiepida e luminosa. Stava leggendo Novalis, uno degli scrittori più sottili, rarefatti e più immateriali che siano stati generati dallo spiritualismo tedesco. La contessa non amava i libri che descrivono la vita con toni violenti e realistici: la vita le sembrava qualcosa di un po' troppo volgare, a forza di vivere in un mondo fatto di eleganza, di amore e di poesia.




            Lasciò cadere il libro e sollevò lentamente lo sguardo verso il conte. Temeva di ritrovare negli occhi neri del marito quello sguardo ardente, tempestoso, carico di mistero che l'aveva turbata così penosamente e che le sembrava, folle apprensione idea stravagante, lo sguardo di un altro!
            Negli occhi di Olaf risplendeva una gioia serena, ardeva il fuoco tranquillo di un amore casto e puro; l'anima estranea che ne aveva cambiato l'espressione era volata via per sempre. Prascovia riconobbe senza esitare il suo adorato Olaf, le sue guance diafane si colorirono di un subitaneo rossore di gioia. Benché ignorasse le trasformazioni operate dal dottor Cherbonneau, la sua acuta sensibilità aveva intuito quei cambiamenti pur senza rendersene conto.
            «Che cosa stai leggendo, mia cara Prascovia?», chiese raccogliendo sul muschio il libro rilegato di marocchino azzurro. «Ah! La storia di Heinrich von Ofterdingen. Proprio il libro che sono andato a prenderti a spron battuto fino a Mohilev, un giorno in cui a tavola avevi espresso il desiderio di averlo. A mezzanotte era sul suo tavolino, accanto alla lampada. Perfino Ralph era ansimante!».

            
           «E io ti ho detto che mai più avrei espresso il benché minimo desiderio davanti a te. Tu sei come quel grande di Spagna che pregava la sua amante di non guardare le stelle perché non poteva offrirgliele».
            «Se tu ne guardassi una», rispose il conte, «tenterei di salire in cielo per andare a chiederla a Dio».
            Mentre ascoltava il marito, la contessa scostò una ciocca ribelle dei capelli che scintillava come una fiamma in un raggio d'oro. Il movimento aveva fatto scivolare la manica e denudato il bel braccio. Al polso scintillava la lucertola d'oro costellata di turchesi che portava il giorno fatale in cui Octave l'aveva vista alle Cascine.



            «Che paura ti fece una volta questa povera piccola lucertola che uccisi con un bastoncino, quando dietro le mie insistenti preghiere scendesti per la prima volta in giardino! Ne feci fare un braccialetto d'oro con qualche pietra, ma anche come gioiello continuava a inorridirti e ci volle del tempo perché tu ti risolvessi a portarlo».
            «Ora mi ci sono abituata ed è il gioiello che preferisco perché è legato a un ricordo molto caro».
            «Sì», riprese il conte, «quel giorno decidemmo che l'indomani avrei chiesto ufficialmente la tua mano a tua zia».
            La contessa, che ritrovava lo sguardo del vero Olaf, si alzò, rassicurata inoltre da tutti quei particolari intimi, gli sorrise, lo prese sotto braccio e insieme fecero qualche passo nella serra, strappando via via un fiore con la mano libera e mordendone i petali con le fresche labbra, come la Venere dello Schiavone che mangia le rose.
            «Visto che oggi hai così buona memoria», disse gettando il fiore che aveva strappato con i suoi denti di perla, «devi aver ritrovato anche l'uso della lingua materna... che ieri avevi dimenticato».
            «È quella che la mia anima parlerà in cielo per dirti che ti amo, se in paradiso le anime conservano un linguaggio umano!», rispose il conte in polacco.
            Continuando a camminare, Prascovia posò dolcemente il capo sulla spalla di Olaf.
            «Cuore mio», mormorò, «è così che ti amo. Ieri mi hai fatto paura, e ti ho fuggito come un estraneo».
            L'indomani Octave de Saville, in cui viveva lo spirito del vecchio dottore, ricevette una lettera listata a lutto, che lo pregava di assistere al servizio funebre e alla sepoltura del signor Balthazar Cherbonneau.



            Il dottore, sotto la sua nuova apparenza, seguì le proprie vecchie spoglie al cimitero, si vide seppellire, ascoltò con una compunzione molto ben simulata i discorsi pronunciati sulla sua fossa, che deploravano l'irreparabile perdita subita dalla scienza. Dopo di che tornò in rue Saint-Lazare e attese l'apertura del testamento che aveva scritto a proprio favore.
            Quello stesso giorno si leggeva fra i fatti di cronaca dei giornali della sera:
            «Il dottor Balthazar Cherbonneau, noto per i lunghi soggiorni in India, per le sue conoscenze filologiche e le sue stupefacenti terapie, ieri è stato trovato morto nel suo studio. Il minuzioso esame del corpo esclude totalmente l'idea di un delitto. Probabilmente il signor Cherbonneau è stato vittima di un eccessivo impegno intellettuale o di qualche audace esperimento. Da un testamento olografo scoperto nella sua scrivania, pare che il dottore abbia lasciato alla biblioteca Mazarine preziosissimi manoscritti e abbia nominato suo erede universale un giovane appartenente a una distinta famiglia, un certo signor Octave de Saville.

FINE

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