Sunday, May 30, 2010

AVATAR V


V

La fama del dottor Balthazar Cherbonneau, come medico e come taumaturgo, cominciava a diffondersi per tutta Parigi. Le sue bizzarrie, vere o simulate, ne avevano fatto un uomo alla moda. Ma invece di crearsi, come suol dirsi, una clientela, faceva di tutto per scoraggiare i malati chiudendo loro la porta in faccia o prescrivendo cose strane, regimi impossibili. Non accettava che casi disperati, lasciando ai colleghi, con altero disdegno, le comuni flussioni di petto, le banali enteriti, le borghesi febbri tifoidee. In casi estremi, però, otteneva guarigioni davvero inimmaginabili.



In piedi accanto al letto faceva gesti magici su una tazza d'acqua, e corpi già rigidi e freddi, pronti per la bara, dopo aver inghiottito qualche goccia di quella bevanda schiudendo le mascelle contratte dall'agonia, ritrovavano i colori della salute, si rimettevano a sedere, guardandosi attorno con occhio già assuefatto alle ombre della tomba.

Per questa ragione lo chiamavano il medico dei morti o il resuscitatore. Non sempre però acconsentiva a intervenire e spesso rifiutava somme enormi da parte di ricchi moribondi. Perché si decidesse a misurarsi con la distruzione doveva sentirsi commosso dal dolore di una madre che implorava la salvezza dell'unico figlio, dalla disperazione di un amante che chiedeva grazia per la sua adorata, o ritenesse che la vita in pericolo era utile alla poesia, alla scienza e al progresso del genere umano.

Fu così che salvò un bel bambino soffocato dalle dita di ferro della difterite, una deliziosa fanciulla tisica all'ultimo stadio, un poeta in preda al delirium tremens, un inventore colpito da una congestione cerebrale che avrebbe lasciato seppellire il segreto della sua scoperta sotto qualche palata di terra. In altri termini non ci si doveva opporre alla natura: certe morti avevano la loro ragione di essere e impedendole si rischiava di creare uno squilibrio nell'ordine universale.

È chiaro che il signor Cherbonneau era il dottore più paradossale del mondo e che dall'India si era portato dietro una buona dose di eccentricità. La sua fama di magnetizzatore era però ancor più grande della sua gloria di medico: davanti a un ristretto numero di eletti aveva tenuto alcune sedute di cui si dicevano meraviglie, a tal punto sovvertivano ogni nozione di possibile o di impossibile, e che superavano i prodigi di Cagliostro.




Il dottore abitava al pianterreno di un vecchio palazzetto della rue du Regard, in un appartamento con le stanze in fila come si facevano una volta. Le alte finestre davano su un giardino con grandi alberi dal tronco nero e un esile fogliame verde. Benché fosse estate, le grate metalliche degli enormi caloriferi emanavano grandi sbuffi di aria caldissima che mantenevano nelle vaste stanze una temperatura sui trentacinque, quaranta gradi. Il signor Cherbonneau, infatti abituato al clima rovente dell'India batteva i denti al nostro pallido sole, come quel viaggiatore che tornando dalle sorgenti del Nilo azzurro, in Africa centrale tremava di freddo al Cairo e usciva solo in una carrozza chiusa avvolto in una pelliccia di volpe azzurra siberiana e con uno scaldapiedi di latta pieno d'acqua bollente.

Gli unici mobili dell'appartamento erano dei divani bassi coperti di stoffe del Malabar su cui erano dipinti elefanti chimerici e uccelli favolosi, scaffali intagliati, colorati e dorati in maniera ingenuamente primitiva dagli indigeni di Ceylon, vasi giapponesi pieni di fiori esotici. Il pavimento di tutto l'appartamento era coperto da uno di quei tappeti funebri a fiorami bianchi e neri che tessono per penitenza i Thugg incarcerati e la cui trama sembra fatta con la canapa delle loro corde da strangolatori. Alcuni idoli indù di marmo o di bronzo, con i lunghi occhi a mandorla, il naso cerciato di anelli, le labbra carnose e sorridenti e collane di perle dotate di attributi misteriosi e singolari che arrivavano fino all'ombelico stavano a gambe incrociate su una delle mensole disposte negli angoli. Lungo le pareti erano appese delle miniature dipinte a tempera, opera di qualche pittore di Calcutta o di Lucknow, che rappresentavano i nove avatar già avvenuti, diVisnù, incarnatosi in un pesce, in una tartaruga, in un maiale, in un leone con la testa umana, in un nano bramino, in Rama, in eroe che combatte contro Cartasuciriargunen, il gigante dalle mille braccia, in Krishna, il bambino miracoloso in cui i sognatori vedono un Cristo indiano, in Budda, adoratore del grande Dio Mahadevi. Visnù era infine raffigurato anche addormentato in mezzo al mare latteo, sul serpente dalle cinque teste ricurve a baldacchino, in attesa di assumere nell'ultima incarnazione la forma dell'alato cavallo bianco, che facendo ricadere lo zoccolo sull'universo segnerà la fine del mondo.



Il signor Balthazar Cherbonneau se ne stava nell'ultima sala, ancor più riscaldata delle altre circondato da libri in sanscrito costituiti da sottili fogli di legno incisi con un punzone, forati e tenuti insieme da un cordone tanto da assomigliare più a persiane che a volumi, così come si intendono in Europa. Una macchina elettrica, con le bottiglie riempite di foglie d'oro e i dischi di vetro messi in moto da una manovella, s'innalzava inquietante e complicata in mezzo alla stanza accanto a una tinozza mesmerica dove erano immerse una stecca metallica e innumerevoli asticelle di ferro disposte a raggiera.



Il signor Cherbonneau era tutt'altro che un ciarlatano e non intendeva predisporre una messa in scena. Era però difficile penetrare in quel suo strano ritiro senza provare un po' la stessa impressione che in passato dovevano suscitare i laboratori degli alchimisti.



Il conte Olaf Labinski aveva sentito parlare dei miracoli del dottore, miracoli che avevano risvegliato la sua incredula curiosità. Le razze slave hanno una naturale inclinazione per il meraviglioso, che nemmeno l'educazione più raffinata riesce sempre a controllare, e d'altro canto testimoni degni di fede che avevano assistito alle sedute del dottore, raccontavano cose alle quali non si puo credere se non si sono viste, per quanta fiducia possa ispirare chi le narra. Andò quindi a far visita al taumaturgo.

Quando il conte Labinski entrò in casa del dottor Cherbonneau, ebbe la sensazione di essere avvolto da una specie di fiamma. Il sangue gli affluì alla testa e le vene delle tempie gli pulsarono. Il caldo eccessivo che regnava nell'appartamento lo soffocava, le lampade dove bruciavano oli aromatici, i larghi fiori di Giava che facevano oscillare gli enormi calici come turiboli gli davano alla testa con le loro emanazioni inebrianti e il profumo asfissiante.

Vacillando fece qualche passo verso il signor Cherbonneau che se ne stava accovacciato sul divano in una di quelle strane pose da fachiro o da sannyasi con le quali il principe Soltikoff ha così pittorescamente illustrato il suo viaggio in India. A veder sporgere gli angoli delle sue articolazioni sotto le pieghe dell'abito veniva fatto di pensare a un ragno umano raggomitolato in mezzo alla tela, immobile davanti alla preda.


Quando comparve il conte le sue pupille turchesi si illuminarono di bagliori fosforescenti al centro dell'orbita dorata dal bistro dell'epatite, ma subito si spensero come per una volontaria albugine. Tese la mano a Olaf, di cui capì il malessere, e con due o tre gesti lo avvolse in un'atmosfera primaverile creando per lui una fresca oasi in quel caldo infernale.

«Si sente meglio adesso? I suoi polmoni abituati ai venti del Baltico che giungono ancora freddi dopo essersi rotolati sulle nevi secolari del polo, dovevano ansimare come mantici a quell'aria ardente dove io, cotto e ricotto e quasi calcinato nelle fornaci del sole, batto i denti dal freddo». Il conte Olaf fece un gesto come per assicurare che non soffriva più dell'alta temperatura della casa.

«Bene, disse il dottore bonariamente, «lei ha sicuramente sentito parlare dei miei giochi di destrezza e vuole avere un saggio delle mie capacità. Oh! Io sono più abile di Comus, di Comte o di Bosco».

«La mia non è una futile curiosità, e ho più rispetto di quanto non pensi per un principe della scienza».

«Io non sono uno scienziato nell'accezione che si dà comunemente a tale parola. Al contrario, studiando certe cose che la scienza disdegna, sono arrivato a dominare forze occulte inutilizzate e produco effetti che sembrano straordinari, anche se sono naturali. A forza di farle la posta a volte ho trovato l'anima. Essa mi ha fatto confidenze di cui ho profittato e mi ha detto parole di cui ho fatto tesoro. Lo spirito è tutto, la materia esiste solo in apparenza. Forse l'universo è solo un sogno di Dio o un irradiazione del Verbo nell' immensità. Io stropiccio come mi pare quello straccio che è il corpo, trattengo la vita o ne affretto la fine, opero sui sensi, sopprimo lo spazio, neutralizzo il dolore senza bisogno di cloroformio, di etere o di qualsiasi altra droga anestetica. Armato della volontà questa elettricità di tipo intellettuale, vivifico o fulmino. Per i miei occhi non esiste più niente di opaco: il mio sguardo passa attraverso tutto, vedo distintamente i raggi del pensiero e allo stesso modo in cui si proiettano gli spettri solari su uno schermo facendoli passare attraverso il mio prisma invisibile posso costringerli a riflettersi sulla tela bianca del mio cervello. Ma tutto ciò è ben poca cosa in confronto ai prodigi compiuti da certi yogi indiani, pervenuti al più sublime grado di ascetismo. Noialtri europei siamo troppo leggeri, troppo distratti, troppo futili, troppo innamorati della nostra prigione d'argilla per aprirvi finestre abbastanza larghe sull'eternità e sull'infinito. Ciò nonostante ho ottenuto risultati piuttosto singolari come lei stesso potrà giudicare», disse il dottor Cherbonneau facendo scorrere sull'asta gli anelli di un pesante tendaggio che nascondeva una specie di alcova praticata in fondo alla sala.

Al chiarore di una fiamma che bruciando alcol oscillava su un tripode di bronzo, il conte Olaf vide uno spettacolo spaventoso che lo fece rabbrividire nonostante il suo coraggio: su un tavolo di marmo giaceva in una immobilità cadaverica il corpo di un giovane nudo fino alla vita. Dal torace, trafitto di frecce come quello di san Sebastiano, non colava una sola goccia di sangue. Pareva l'immagine a colori di un martire, al quale il pittore avesse dimenticato di tingere di rosso i labbri delle ferite.



«Questo strano medico» si disse Olaf, «è forse un adoratore di Siva e ha sacrificato una vittima al suo idolo».

«Oh! Non soffre affatto. Lo punga senza paura: non vedrà muoversi un solo muscolo della sua faccia». E intanto il dottore gli andava estraendo le frecce dal corpo, come si sfilano gli spilli da un puntaspilli.

Alcuni rapidi movimenti della mano liberarono il paziente dalla trama di effluvi che lo imprigionava ed egli si svegliò con un sorriso estatico sulle labbra come se emergesse da un bel sogno. Quando con un gesto il signor Balthazar Cherbonneau lo ebbe congedato, se ne andò passando da una porticina che si apriva nel rivestimento ligneo dell'alcova.

«Gli avrei potuto tagliare una gamba o un braccio senza che se ne accorgesse», disse il dottore che volendo sorridere increspò le rughe. «Non l'ho fatto perché non ho ancora il potere di creare, e la linfa dell'uomo, inferiore in questo alla lucertola, non è abbastanza potente da far ricrescere le membra amputate. Ma se non posso creare, in compenso posso ringiovanire». E tolse il velo che copriva una donna anziana addormentata grazie alla forza magnetica su una poltrona, non lontano dal tavolo di marmo nero. I suoi lineamenti, che dovevano essere stati belli, erano appassiti, e i segni devastanti del tempo erano visibili sul contorno smagrito delle braccia, delle spalle e del petto. Per qualche minuto il dottore la fissò intensamente con lo sguardo delle sue pupille azzurre: i contorni molli si rassodarono, la linea del seno ritrovò la sua purezza virginale, una carne bianca e morbida riempì la magrezza del collo, le guance si arrotondarono e una giovanile freschezza le rese vellutate come pesche, gli occhi si aprirono scintillando vivaci e sotto la maschera della vecchiaia, magicamente cancellata, riapparve la bella fanciulla da tempo svanita.

«Crede che la fontana della giovinezza abbia versato da qualche parte la sua acqua miracolosa?» chiese il dottore al conte stupefatto da quella trasformazione. «Io ci credo, perché l'uomo non inventa niente e ogni suo sogno è divinazione o reminiscenza. Ma lasciamo per un attimo questa forma riplasmata dalla mia volontà e consultiamo quella fanciulla che dorme tranquillamente nel suo angolino. La interroghi, e vedrà che la sa più lunga delle pizie e delle sibille. La può mandare in uno dei suoi sette castelli in Boemia, chiederle che cosa contenga il suo cassetto più segreto e lei glielo dirà. Alla sua anima infatti non occorre più di un secondo per fare il viaggio, cosa peraltro ben poco sorprendente dal momento che l'elettricità percorre settantamila leghe nello stesso lasso di tempo, e l'elettricità sta al pensiero come il fiacre al vagone ferroviari. Le dia la mano per mettersi in contatto con lei: non avrà bisogno di formulare la domanda perché la leggerà nella sua mente».

Con la voce atona di un'ombra la fanciulla rispose alla domanda inespressa del conte: «Nel cofanetto di cedro c'è una zolla di terra cosparsa di fine sabbia su cui si vede l'impronta di un piedino».

«Ha indovinato?» Il dottore fece la domanda con aria indifferente, sicuro dell'infallibilità della sonnambula.

Le guance del conte si coprirono di un violento rossore. Nei primi tempi del loro amore egli aveva effettivamente preso l impronta di un passo di Prascovia nel viale di un parco e la conservava come una reliquia in una scatola incrostata di madreperla e d'argento, preziosamente lavorata di cui portava al collo la microscopica chiave appesa a una catenella veneziana.

Vedendo l'imbarazzo del conte, il signor Balthazar Cherbonneau, che era un uomo di buone maniere, non insisté e lo guidò a un tavolo su cui era posata una coppa d'acqua limpida come il diamante.

«Sicuramente lei ha sentito parlare dello specchio magico dove Mefistofele fa vedere a Faust l'immagine di Elena. Pur non avendo uno zoccolo di cavallo nella mia calza di seta ne due penne di gallo sul cappello le posso offrire lo stesso innocente prodigio. Si chini sulla coppa e pensi intensamente alla persona che desidera far comparire: viva o morta, lontana o vicina, risponderà al suo appello dall'altro capo del mondo o dalla storia remota».



Il conte si chinò sulla coppa e sotto il suo sguardo l'acqua si fece subito torbida assumendo un colore opalino come se vi fosse stata versata una goccia d'essenza. Un alone iridato circondò i bordi del recipiente incorniciando il quadro che si andava delineando sotto il vapore biancastro.

La nebbia si dissipò e una giovane donna in vestaglia di pizzo, con gli occhi verde mare, i biondi capelli arricciati e le belle mani che vagavano distratte come bianche farfalle sull'avorio dei tasti, si disegnò come in uno specchio sull'acqua ridivenuta trasparente, così straordinariamente perfetta da far morire di disperazione ogni pittore.



Era Prascovia Labinska che inconsapevolmente ubbidiva all'appassionata evocazione del conte.

«E adesso passiamo a qualcosa di più singolare», disse il dottore prendendo la mano del conte e posandola su una delle asticciole di ferro della tinozza mesmerica. Appena ebbe toccato il metallo carico di un folgorante magnetismo, Olaf cadde a terra come fulminato.

Il dottore lo prese tra le braccia lo sollevò come una piuma, lo posò su un divano e disse al domestico che comparve sulla soglia: «Vada a chiamare il signor Octave de Saville».

(V - Continua)

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Saturday, May 22, 2010

AVATAR IV

IV

Erano trascorsi due anni dal giorno in cui la contessa Labinska aveva bloccato sulle labbra di Octave la dichiarazione d'amore che non doveva ascoltare. Octave se n'era andato con la sua speranza distrutta, e roso da un cupo dolore non aveva dato più notizie a Prascovia. Le uniche parole che avrebbe potuto scriverle erano anche le uniche proibite. Ma più di una volta, preoccupata da quel silenzio, la contessa aveva pensato malinconicamente al suo povero adoratore: l'aveva dimenticata? Divinamente estranea a ogni civetteria, se lo augurava senza crederci, poiché l'inestinguibile fiamma della passione illuminava gli occhi di Octave, e la contessa non poteva essersi sbagliata. L'amore e gli dei si riconoscono dallo sguardo: quest'idea offuscava come una piccola nube il limpido azzurro della sua felicità e le ispirava la leggera tristezza degli angeli che in cielo si ricordano della terra. La sua anima delicata soffriva nel sapere che laggiù c'era qualcuno che soffriva a causa sua. Ma che cosa può fare l'aurea stella che brilla nell'alto del firmamento per l'oscuro pastore che alza verso di lei le braccia smarrite? È vero che nei tempi mitologici gli argentei raggi di Febe erano scesi su Endimione dormiente, ma Febe non era sposata con un conte polacco.



Appena arrivata a Parigi la contessa aveva mandato a Octave quel banale invito che il dottor Cherbonneau si stava girando distrattamente fra le dita, e non vedendolo venire, sebbene lei ne avesse espresso il desiderio, si era detta con un involontario moto di gioia: «Mi ama ancora!». Eppure era una donna angelicamente pura e casta come la neve della più alta vetta dell'Himalaya.

Ma perfino Dio, lassù nel suo infinito, per distrarsi dalla noia dell'eternità non ha che il piacere di sentir battere per lui il cuore di una povera piccola creatura mortale su un miserabile globo, sperduto nell'immensità. Prascovia non era più severa di Dio e il conte Olaf non avrebbe potuto biasimare quella delicata sensazione di voluttà.

«Il suo racconto, che ho ascoltato attentamente», disse il dottore a Octave, «mi dimostra che ogni sua speranza sarebbe chimerica: la contessa non corrisponderà mai al suo amore».

«Lo vede, signor Cherbonneau, avevo ragione a non cercar di trattenere la mia vita che se ne va».

«Ho detto che non c'è speranza con i mezzi normali», seguitò il dottore, «ma esistono potenze occulte misconosciute dalla scienza moderna di cui si è conservata la tradizione in quei paesi esotici che una civiltà ignorante definisce barbari. In questi paesi, agli albori del mondo, il genere umano, che era in diretto contatto con le forze vive della natura, conosceva segreti che noi crediamo perduti e che, non hanno portato con sé, nelle loro migrazioni, le tribù che più tardi hanno dato origine ai vari popoli. Questi segreti furono dapprima trasmessi da iniziato a iniziato nelle misteriose profondità dei templi, poi vennero scritti in idiomi sacri incomprensibili al volgo, incisi sotto forma di geroglifici lungo le segrete pareti delle grotte di Ellora.


Sulle pendici del monte Meru, dove nasce il Gange, ai piedi della scalinata di marmo della città santa di Benares, tra i ruderi delle pagode di Ceylon, si possono ancora incontrare bramini centenari intenti a decifrare manoscritti sconosciuti, yogi che ripetono l'ineffabile monosillabo ‘om’ senza accorgersi degli uccelli del cielo che nidificano fra i loro capelli, fachiri le cui spalle portano i segni delle cicatrici lasciate dagli uncini di ferro di Jagannath: tutti costoro possiedono questi arcani perduti e ne ottengono risultati meravigliosi quando ritengono di doversene servire.



La nostra Europa, tutta presa dagli interessi materiali, non sospetta neppure a che grado di spiritualità siano giunti i penitenti indiani: digiuni totali, stati contemplativi di una fissità da lasciare sbigottiti, posizioni impossibili mantenute per anni interi ne prosciugano a tal punto il corpo che a vederli accovacciati sotto un sole di piombo, tra bracieri ardenti, con le unghie così lunghe da perforare il palmo della mano, si direbbero mummie egiziane tirate fuori dalla bara e piegate in atteggiamenti scimmieschi. L'involucro umano non è più che una crisalide che l'anima, farfalla immortale, può lasciare o ritrovare a piacimento.

Mentre la loro spoglia scarnita resta li, inerte, orribile a vedersi, come una larva notturna sorpresa dalla luce, il loro spirito, libero da ogni legame, si slancia sulle ali dell'allucinazione nei mondi soprannaturali ed altezze incalcolabili. Hanno visioni e sogni strani; di estasi in estasi seguono le ondulazioni che le età scomparse generano sull'oceano dell'eternità; percorrono l'infinito in ogni senso, assistono alla creazione degli universi, alla genesi degli dei e alle loro metamorfosi; recuperano la memoria delle scienze ingoiate dai cataclismi plutoniani e diluviani, dei rapporti ormai dimenticati fra gli uomini e gli elementi. In quel loro eccezionale stato borbottano parole appartenenti a lingue che nessun popolo sulla faccia della terra parla più da migliaia di anni, ritrovano il verbo primordiale, il verbo che ha fatto scaturire la luce dalle antiche tenebre: vengono presi per pazzi e sono quasi degli dei!».

Octave ascoltava con estrema attenzione quel singolare preambolo del signor Cherbonneau, fissandolo con occhi stupiti e pieni di interrogativi. Non riusciva a capire dove volesse arrivare né che rapporto ci potesse essere tra i penitenti indiani e il suo amore per la contessa Prascovia Labinska.

Il dottore, intuendo i pensieri di Octave, fece un gesto con la mano come per prevenirne le domande e disse: «Pazienza, mio caro malato. Fra poco capirà che non sto facendo inutili digressioni. Stanco di interrogare con il bisturi, sui tavoli delle sale anatomiche, cadaveri che non mi rispondevano e mi permettevano di vedere soltanto la morte, mentre io cercavo la vita formulai il progetto - un progetto ardito come quello di Prometeo che vuol scalare il cielo per rubare il fuoco - di arrivare a scoprire l'anima, di analizzarla e per così dire di sezionarla. Tralasciai l'effetto per la causa, profondamente disgustato dalla scienza materialista di cui mi era evidente la nullità. Operare su quelle forme vaghe, su quella fortuita aggregazione di molecole, mi sembrava compito di un grossolano empirismo.

Mediante il magnetismo tentai di sciogliere i legami che incatenano lo spirito al suo involucro. Superai rapidamente Mesmer, Deslon, Maxwell, Puységur, Deleuze e tutti gli scienziati più abili, effettuando esperimenti davvero prodigiosi, ma che ancora non mi soddisfacevano pienamente.



Catalessi, sonnambulismo, visione a distanza, lucidità estatica: ottenni a volontà tutti questi effetti incomprensibili per il volgo, ma semplici e comprensibili per me. Risalii più lontano: dall'estasi di Cardano e di san Tommaso d'Aquino passai alle crisi nervose delle Pizie; scoprii gli arcani degli Epopti greci e dei Nebiim ebrei; mi iniziai retrospettivamente ai misteri di Trofonio e di Esculapio, individuando sempre nei portenti che si raccontano una concentrazione o un'esperienza dell'anima provocata ora dal gesto, ora dallo sguardo, ora dalla parola, ora dalla volontà o da qualsiasi altro agente sconosciuto. Rifeci a uno a uno i miracoli di Apollonio di Tiana.

Ciò nonostante il mio sogno scientifico non si era ancora realizzato: l'anima continuava a sfuggirmi. La intuivo, la sentivo, avevo un certo potere su di lei, ne intorpidivo o ne stimolavo le facoltà, ma tra me e lei c'era un velo di carne che non potevo sollevare senza che lei volasse via: ero come l'uccellatore che tiene un uccello sotto una rete che non osa alzare temendo che la preda alata svanisca nel cielo.

Partii per l'India sperando di trovare la chiave dell'enigma nella terra dell'antica saggezza. Imparai il sanscrito e il pacrit, linguaggi dotti e popolari. Potei conversare con i pandit e i bramini. Attraversai le giungle dove urla rauca la tigre in agguato. Costeggiai gli stagni sacri che il dorso dei coccodrilli ricopre di squame. Superai foreste rese impenetrabili dall'intrico di liane, mettendo in fuga nugoli di pipistrelli e di scimmie, trovandomi faccia a faccia con l'elefante alla svolta di un sentiero tracciato dalle belve. Arrivai infine alla capanna di qualche yogi famoso in comunicazione con i Mouni. Per giorni interi mi sedetti accanto a lui spartendo la sua pelle di gazzella, e annotai le vaghe formule magiche che mormoravano nell'estasi le sue labbra nere e screpolate. Colsi così parole onnipotenti, formule evocatrici, sillabe del Verbo creatore.


Studiai le sculture simboliche nelle stanze interne delle pagode che nessun occhio profano ha mai visto e dove potei introdurmi vestito da bramino. Lessi molti misteri cosmogonici, molte leggende di civiltà scomparse. Scoprii il senso degli emblemi che questi dei sovraccarichi come la natura dell'India, tengono nelle loro multiple mani. Meditai sul cerchio di Brahma, sul loto di Visnù, sul cobra cappello di Siva il dio azzurro. Ganesa, srotolando la sua proboscide di pachiderma e strizzando i piccoli occhi dalle lunghe ciglia, sembrava sorridere ai miei sforzi e incoraggiare le mie ricerche. Tutte quelle figure mostruose mi dicevano nella loro lingua di pietra: "Noi non siamo che forme, è lo spirito a muovere la massa".

Un sacerdote del tempio di Tirunnamalay, al quale avevo par lato dell'idea che era al centro dei miei pensieri mi parlò di un penitente che viveva in una grotta dell'isola di Elefanta come di un uomo pervenuto al livello più sublime. Lo trovai appoggiato al muro della caverna, avvolto in un pezzo di sparto, con le ginocchia al mento, le dita incrociate sulle gambe in condizioni di assoluta immobilità. Le pupille rovesciate non lasciavano vedere che il bianco, le labbra si serravano sui denti tentennanti. La pelle resa incartapecorita da un'incredibile magrezza aderiva agli zigomi. I capelli ricadevano a ciuffi rigidi come i filamenti di una pianta dall'alto di una roccia. La barba si divideva in due fiumi che quasi toccavano terra e le unghie si curvavano come artigli d'aquila.

Il sole l'aveva disseccato e annerito fino a dare alla sua pelle di indiano, naturalmente scura, l'apparenza del basalto. In quella posizione assomigliava per forma e colore a un vaso canonico. A prima vista credetti che fosse morto. Gli scossi le braccia che erano come anchilosate da una rigidità catalettica, gli gridai all'orecchio con voce più forte che potei le parole sacramentali da cui avrebbe dovuto capire che ero un iniziato: non trasalì e le palpebre gli restarono immobili. Stavo per allontanarmi, disperando di poterne ricavare qualcosa, quando sentii uno strano crepitio e una scintilla azzurrina mi passò davanti agli occhi con la folgorante rapidità di un bagliore elettrico, volteggiò un attimo sulle labbra socchiuse del penitente e scomparve.



Brahma-Logum (così si chiamava il santo personaggio) sembrò svegliarsi dal letargo: le pupille ripresero il loro posto ed egli mi guardò con uno sguardo umano mentre rispondeva alle mie domande: "Ebbene, i tuoi desideri sono soddisfatti. Ora hai visto un'anima. Sono riuscito a separare la mia dal corpo quando voglio: essa ne esce, vi rientra come un'ape luminosa, percepibile ai soli occhi degli adepti. Ho talmente digiunato, pregato, meditato, mi sono macerato così severamente, che ho potuto sciogliere i legami terrestri che la incatenavano, e che Visnù, il dio dalle dieci incarnazioni, mi ha rivelato la parola misteriosa che la guida nei suoi avatar attraverso le diverse forme. Se dopo aver fatto i gesti consacrati la pronunciassi, la tua anima volerebbe via per dar vita all'uomo e all'animale che io avessi prescelto. Ti trasmetto questo segreto, che sono il solo al mondo a possedere. Sono davvero felice che tu sia venuto, perché ho fretta di fondermi nel cuore dell'increato, come una goccia d'acqua nel mare". E il penitente mi sussurrò con voce fievole come l'ultimo rantolo di un morente, e tuttavia distinta, alcune sillabe che mi fecero correre per la schiena quel leggero brivido di cui parla Giobbe».

«Che cosa intende dire, dottore?» esclamò Octave. «Non ho il coraggio di sondare la spaventosa profondità del suo pensiero».

«Intendo dire», rispose tranquillamente il signor Balthazar Cherbonneau, «che non ho dimenticato la magica formula del mio amico Brahma-Logum, e che la contessa Prascovia dimostrerebbe davvero un grande acume se riconoscesse l'anima di Octave de Saville nel corpo di Olaf Labinski».

(IV - Continua)

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Friday, May 07, 2010

AVATAR III

III


Erano pochi coloro che passeggiando dalle parti degli Champs Elysées prendessero l'avenue Gabriel a partire dall'ambasciata ottomana fino all'Elysées Bourbon, preferendo al polveroso turbinio e all'elegante frastuono della grande arteria la solitudine, il silenzio e la fresca quiete di questa via, fiancheggiata da alberi e da giardini. Quasi tutti però si soffermavano inevitabilmente con aria incantata e con un senso di ammirazione misto a invidia davanti a una casa appartata, poetica e misteriosa, dove, cosa rara, la ricchezza sembrava albergare la felicità.


A chi non è capitato di fermarsi davanti al cancello di un giardino, di guardare lungamente una bianca villa attraverso il verde e di andarsene poi con il cuore grosso, come se il sogno della sua vita fosse nascosto dietro quelle mura? Altre case invece, viste da fuori, suscitano un'indefinibile tristezza: noia, abbandono, disperazione ingrigiscono crudamente la facciata e ingialliscono le cime semispoglie degli alberi. Il muschio copre di lebbra le statue, mentre i fiori intristiscono, l'acqua delle vasche si fa verde, le erbacce invadono ostinatamente i sentieri, e gli uccelli, se ci sono, tacciono.

I giardini, sotto il livello del viale, ne erano separati da un fossato, e a strisce più o meno larghe arrivavano fino alle ville che si affacciavano sulla rue du Faubourg-Saint-Honoré. Quello di cui stiamo parlando finiva al fossato con un terrapieno sostenuto da un muro di grosse rocce scelte per l'insolita irregolarità della forma. Innalzandosi come quinte, esse racchiudevano nella ruvida asperità delle loro cupe masse un fresco quadro verzicante. L'opunzia, l'asclepiade incarnata, l'iperico, la sassifraga, la cimbalaria, il semprevivo, la licnide delle Alpi, l'edera d'Irlanda trovavano negli anfratti terra a sufficienza per nutrire le radici e il loro verde così diverso si stagliava sul vigoroso sfondo della pietra. Un pittore non avrebbe saputo disporre in primo piano, sulla sua tela, più efficaci elementi di contrasto.

Le mura laterali che chiudevano quel paradiso terrestre scomparivano sotto un manto di piante rampicanti, aristolochie, granadiglie azzurre, campanule, caprifogli, gipsofili, glicini della Cina, periploche della Grecia i cui rizomi, viticci e steli formavano un verde intreccio. Neanche la felicità vuole infatti essere imprigionata, e grazie a quella disposizione il giardino assomigliava alla radura di una foresta più che a una piccola aiuola, delimitata dai recinti della civiltà.

A poca distanza dalle rocce alcuni ciuffi di alberi svettavano eleganti con le loro fronde rigogliose pittorescamente contrastanti: ailanti del Giappone, tuie del Canada, platani della Virginia, frassini verdi, bianchi salici, bagolari della Provenza, su cui dominavano alcuni larici. Oltre agli alberi si estendeva un prato con l'erba tutta alla stessa altezza: un prato più fine, più serico del velluto di un manto regale, di quel perfetto verde smeraldino che si ottiene solo in Inghilterra davanti alle scalinate dei manieri feudali, morbidi tappeti naturali che lo sguardo accarezza con gioia e il piede non osa calpestare, moquette vegetale sulla quale di giorno soltanto la gazzella addomesticata può ruzzare al sole con il piccolo duca vestito di pizzo, e di notte solo qualche Titania del West End può scivolare stringendo la mano di un Oberon iscritto nell'albo d'oro dei pari e dei baronetti.



Un viale di sabbia setacciata nel timore che una valva di conchiglia o un sasso appuntito ferisse i piedi aristocratici che vi lasciavano la loro delicata impronta, correva come un nastro giallo intorno a quella distesa verde, bassa e fitta, che il rullo pareggiava e la pioggia artificiale dell'annaffiatoio manteneva fresca e umida anche durante l'arsura estiva.

In fondo al prato, all'epoca in cui si svolge questa storia, esplodeva da un cespuglio di gerani un vero fuoco d'artificio floreale, con le sue stelle scarlatte fiammeggianti sul fondo scuro della terra di brughiera.

L'elegante facciata della villa chiudeva la prospettiva: le snelle colonne ioniche che sostenevano l'attico, sormontato a ogni angolo da un delicato gruppo marmoreo, le davano un aspetto da tempio greco trasportato in quel luogo dal capriccio di un milionario, e l'aurea di poesia e d'arte che creavano attenuava l'impressione troppo fastosa che avrebbe potuto suscitare tutto quel lusso. Tra le colonne, tende a grandi strisce rosa quasi sempre abbassate suggerivano e proteggevano le finestre che si aprivano direttamente sul portico come porte vetrate. Quando il lunatico cielo parigino si degnava di mostrare un lembo azzurro dietro la villa, le sue linee apparivano così armoniose tra i ciuffi di verde da far pensare a una casetta della regina delle fate o a un quadro ingrandito del Baron.

Due serre, protese nel giardino, costituivano le ali della villa. Tra nervature dorate, pareti di cristallo luccicavano al sole come diamanti, ricreando l'illusione del clima natale per una quantità di piante esotiche, rare e preziose.

Se un poeta mattiniero fosse passato per l'avenue Gabriel ai primi rosei chiarori dell'aurora, avrebbe sentito gli ultimi trilli notturni dell'usignolo e avrebbe visto il merlo passeggiare in pantofole gialle nel viale del giardino come se fosse stato a casa sua. Ma dopo che nel silenzio notturno si fosse spento il frastuono delle carrozze di ritorno dall'Opéra, quello stesso poeta avrebbe vagamente distinto un'ombra bianca al braccio di un bel giovane, e sarebbe risalito nella sua solitaria mansarda con l'anima mortalmente triste.

Come il lettore avrà certamente già indovinato, in quella casa abitavano da qualche tempo la contessa Prascovia Labinska e il marito, il conte Olaf Labinski, tornato dalla guerra del Caucaso dopo una gloriosa campagna. Anche se nel suo corso non aveva combattuto corpo a corpo con il mistico e inafferrabile Schamyl, di sicuro aveva avuto a che fare con i Murid fanaticamente devoti all'illustre sceicco. Aveva evitato le pallottole come fanno i coraggiosi, andando loro incontro, e le sciabole ricurve dei selvaggi guerrieri si erano spezzate sul suo petto senza scalfirlo. Il coraggio è una corazza senza pecche. Il conte Labinski possedeva quel folle coraggio delle razze slave che amano il pericolo per se stesso, e per le quali è ancora valido il ritornello di una vecchia canzone scandinava: «Uccidono, muoiono e ridono!».

L'ebbrezza con cui si erano ritrovati i due sposi per i quali il matrimonio non era che la passione consentita da Dio e dagli uomini, solo Thomas Moore avrebbe potuto cantarla, nello stile de Gli amori degli angeli! Ogni goccia di inchiostro dovrebbe trasformarsi nella nostra penna in una goccia di luce e ogni parola dovrebbe evaporare sulla carta ardendo e profumando come un granello d'incenso. Come descrivere quelle due anime fuse in una sola e simili a due lacrime di rugiada che scivolando su un petalo di giglio si incontrano, si mescolano, si assorbono reciprocamente fino ad essere un'unica perla? La felicità è una cosa rara in questo mondo che l'uomo non ha pensato a inventare parole per esprimerla, mentre il vocabolario della sofferenza fisica e morale riempie innumerevoli colonne nel dizionario di tutte le lingue.

Olaf e Prascovia si erano amati fin da bambini e un solo nome aveva fatto battere il loro cuore. Fin quasi dalla culla sapevano che si sarebbero appartenuti, e per loro il resto del mondo non esisteva. Pareva che si fossero ritrovate e riunite in loro le parti dell'androgino di Platone che si cercano invano dopo l'originaria separazione: essi formavano quella dualità nell'unità che è l'armonia completa e camminavano, o meglio volavano fianco a fianco attraverso la vita con un volo eguale, sostenuto, planando «quali colombe dal disio chiamate», per usare la bella immagine di Dante.



Affinché niente turbasse tale felicità, l'attorniava come un'atmosfera dorata un'immensa ricchezza. All'apparire di quella coppia splendente, la miseria consolata abbandonava i suoi stracci, le lacrime si asciugavano: Olaf e Prascovia avevano il nobile egoismo di chi è felice, e radiosi com'erano non potevano tollerare un solo dolore.

Da quando con il politeismo sono scomparsi quei giovani dei, quei geni sorridenti, quegli efebi celesti dalle forme così assolutamente perfette, così armoniosamente scandite, così idealmente pure, e la Grecia antica più non canta l'inno della bellezza in strofe di Paro, l'uomo ha crudelmente abusato della libertà di essere brutto, e benché fatto a immagine di Dio, lo rappresenta piuttosto male.



Il conte Labinski non aveva però profittato di quella licenza: l'ovale un po' allungato del viso, il naso sottile di un taglio fine e ardito, le labbra ben disegnate, messe in evidenza dagli affilati baffi biondi, il mento rialzato con una fossetta al centro, gli occhi neri, seducente singolarità, graziosa stranezza, lo facevano assomigliare a uno di quegli angeli guerrieri, san Michele o san Raffaele, che combattono il diavolo rivestiti di armature d'oro. Sarebbe stato perfino troppo bello senza maschio fulgore delle pupille scure e l'abbronzatura del viso dovuta al sole asiatico.



Era un uomo di statura media, magro, slanciato, nervoso, e sotto l'apparente delicatezza nascondeva muscoli d'acciaio. Quando in occasione di certi balli d'ambasciata indossava il suo costume da nobile maggiorente, fregiato d'oro, costellato di diamanti e di perle, passava tra i gruppi degli ospiti come una splendente apparizione, provocando la gelosia degli uomini e l'amore delle donne, alle quali Prascovia lo rendeva indifferente. Non c'è bisogno di aggiungere che oltre alle doti fisiche il conte possedeva quelle spirituali: accanto alla sua culla avevano vegliato le fate benigne, e perfino la cattiva strega quel giorno si era mostrata di buon umore.

È chiaro che con un simile rivale Octave de Saville aveva poche probabilità di successo e che perciò aveva ben ragione di lasciarsi tranquillamente morire sui cuscini del divano, anche se il fantastico dottor Cherbonneau cercava di far rinascere le sue speranze. L'unica cosa da fare sarebbe stato dimenticare Prascovia, ma era impossibile. E a che scopo rivederla? Octave sentiva che la giovane donna sarebbe rimasta fedele alle sue decisioni, con dolce implacabilità e compassionevole freddezza. Aveva paura che le sue ferite non rimarginate si riaprissero e sanguinassero davanti a colei che innocentemente l'aveva ucciso, e lui non voleva accusarla, quella sua dolce, amata omicida!

(III - Continua)

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Sunday, May 02, 2010

AVATAR II

II

«Nel 184... mi trovavo a Firenze sul finire dell'estate, la stagione più bella per visitarla. Avevo tempo, denaro, le giuste lettere di raccomandazione, e a quell'epoca ero un giovane d'indole allegra che non chiedeva di meglio che divertirsi.

Mi stabilii sul Lungarno, noleggiai una carrozza e mi abbandonai a quella dolce vita fiorentina, cosi suggestiva per uno straniero.



La mattina visitavo tranquillamente qualche chiesa, qualche museo, ma senza affannarmi. Non volevo fare quell'indigestione di capolavori che in Italia fa venire la nausea dell'arte al turista troppo zelante. Ora andavo a guardare le porte di bronzo del Battistero, ora il Perseo del Cellini alla Loggia dei Lanzi, il ritratto della Fornarina agli Uffizi, oppure la Venere del Canova a palazzo Pitti, mai comunque più di un'opera alla volta. Poi facevo colazione da Doney con un sorbetto al caffè, fumavo qualche sigaro, scorrevo i giornali e infine tornavo in albergo per la siesta con un fiore all'occhiello datomi, per amore o per forza, dalle belle fioraie con i grandi cappelli di paglia che sostano davanti al caffè. Alle tre la carrozza veniva a prendermi per portarmi alle Cascine.



Le Cascine rappresentano a Firenze quello che il Bois de Boulogne rappresenta a Parigi, con la differenza che tutti si conoscono e la rotonda è come un salotto all'aperto dove al posto delle poltrone ci sono le carrozze disposte a semicerchio.


Le donne, elegantemente vestite, semisdraiate sui cuscini ricevono la visita di amanti e vagheggini, di dandy e di addetti alle legazioni che stanno in piedi sul predellino con il cappello in mano. Ma lei sa tutte queste cose meglio di me. È lì che si fanno progetti per la serata, si fissano gli appuntamenti, si danno le risposte, si accettano gli inviti: è come una Borsa del piacere che dura dalle tre alle cinque, all'ombra di begli alberi, sotto il cielo più dolce del mondo. Per chi appartiene a una certa classe sociale è obbligatorio fare ogni giorno una capatina alle Cascine. Io ben mi guardavo dal mancare e la sera, dopo cena, frequentavo qualche salotto, o la Pergola, se la cantante lo meritava.

Passai così uno dei mesi più felici della mia vita. Ma quella felicità non doveva durare.



Un giorno fece la sua comparsa alle Cascine una magnifica carrozza. Quella splendida creazione viennese dalla vernice scintillante, capolavoro di Laurenzi, con uno stemma quasi regale, aveva la più bella pariglia di cavalli che abbia mai scalpitato a Hyde Park o a Saint James al Drawing Room della regina Victoria. Era guidata alla Daumont, in modo perfetto, da un giovanissimo jockey in calzoni di pelle bianca e casacca verde. L'ottone dei finimenti, il coprimozzo delle ruote, le maniglie delle portiere brillavano al sole come l'oro. Tutti gli sguardi seguivano lo splendido equipaggio che dopo aver descritto una curva regolare come se fosse stata tracciata con il compasso, andò a fermarsi accanto alle altre carrozze. Come lei può ben immaginare, non era una carrozza vuota, ma la velocità a cui andava aveva permesso di distinguere solo una punta di stivaletto allungato sul cuscino davanti, l'ampia piega di uno scialle e l'aureola di un parasole frangiato di seta bianca. Il parasole si richiuse e si vide allora risplendere una donna di una bellezza incomparabile. Io ero a cavallo e potei avvicinarmi abbastanza per non perdermi nessun particolare di quel capolavoro umano.


La forestiera portava un vestito verde acqua di quella lucentezza argentea che fa sembrare nere come talpe le donne che non abbiano un incarnato perfetto: un'insolenza di bionda sicura di sé. Il viso era aureolato da un cappello di finissima paglia di Firenze, adorno di miosotis e di delicate piante acquatiche dalle strette foglie glauche. Unico gioiello, una lucertola d'oro tempestata di turchesi al braccio che reggeva il manico d'avorio del parasole.

Perdoni, caro dottore, questa descrizione da giornale di moda a un innamorato per il quale ogni piccolo ricordo assume un'importanza enorme. Folti capelli biondi e inanellati scendevano come onde di luce ai lati di una fronte più bianca e più pura della neve vergine caduta durante la notte sulla più alta vetta delle Alpi; ciglia lunghe e sottili simili ai fili d'oro che aureolano gli angeli dei miniaturisti medioevali, velavano in parte le pupille verdi azzurre come certe luci che il sole fa balenare sui ghiacciai. La bocca, stupendamente disegnata, era di quel color porpora che ombreggia le valve delle conchiglie di Venere, e le guance ricordavano le timide rose bianche alle quali basta per arrossire la dichiarazione di un usignolo o il bacio di una farfalla.

Nessun pennello umano saprebbe rendere quell'incarnato di una soavità, di una freschezza, di una trasparenza immateriali, i cui colori non sembravano dovuti al sangue volgare che arrossa le nostre fibre. A darne una vaga idea potrebbero essere i primi rosei bagliori dell'aurora sulla cima della Sierra Nevada, la tonalità carnicina di certe camelie bianche nella parte inferiore del petalo, il marmo di Paro, intravisto attraverso un velo rosa.

Vaghi riflessi opalini iridavano il profilo di quella parte del collo che si scorgeva tra i nastri del cappello e lo scialle. Come nei bei dipinti della scuola veneziana, in un primo momento si era colpiti non tanto dalla linea di quella mirabile testa quanto dalle sue tinte, anche se i tratti erano puri e delicati come quelli dei profili antichi incisi sull'agata dei cammei.

Come Romeo dimenticò Rosalinda alla vista di Giulietta, io dimenticai i miei passati amori all'apparire di quella divina bellezza. Le pagine del mio cuore si rifecero bianche: ogni nome, ogni ricordo scomparve. Non capivo come avessi potuto lasciarmi attrarre dalle basse relazioni che pochi giovani sanno evitare e me le rimproverai come colpevoli infedeltà. Da quel fatale incontro ebbe inizio per me una vita nuova.

La carrozza lasciò le Cascine e si riavviò verso la città portandosi via la splendente visione. Misi il cavallo accanto a quello di un giovane russo molto cortese, grande frequentatore di stazioni termali e dei salotti cosmopoliti di tutta Europa. Poiché conosceva benissimo i personaggi itineranti dell'alta società, portai il discorso sulla straniera e venni a sapere che si trattava della contessa Prascovia Labinska, una lituana di illustri natali e di grande ricchezza, il cui marito era impegnato da due anni nella guerra del Caucaso.

Inutile dirle a quali arti diplomatiche dovetti ricorrere per essere ricevuto dalla contessa, che in assenza del conte era poco propensa a fare nuove conoscenze. Finalmente vi riuscii quando la specchiata virtù di due vecchie principesse e di quattro baronesse senza età si fece garante per me.

La contessa Labinska aveva preso in affitto una magnifica villa che era stata dei Salviati, a una mezza lega da Firenze, e in pochi giorni era riuscita a dotarla di tutte le comodità moderne senza minimamente alterarne la severa bellezza e la composta eleganza. Grandi portiere stemmate pendevano, armoniosamente dalle arcate ogivali; poltrone e mobili di stile antico si intonavano alle pareti rivestite di legno scuro o di affreschi dai toni smorzati e sbiaditi come quelli dei vecchi arazzi: nessun colore troppo audace, nessuna doratura troppo brillante offendeva lo sguardo, e il presente non strideva con il passato. La contessa aveva talmente l'aria di una castellana che la vecchia villa sembrava fatta apposta per lei.

Se la radiosa bellezza della contessa mi aveva sedotto, ancor più mi sedusse, dopo qualche visita, la sua intelligenza così rara, così sottile, così ricca: quando parlava di un argomento interessante, l'anima, se così può dirsi, le affiorava alla pelle, diventando visibile. Il suo bianco incarnato risplendeva dall'interno come l'alabastro di una lampada, accendendosi di quello scintillio fosforescente, di quei fremiti luminosi di cui parla Dante quando descrive gli splendori del paradiso. Pareva un angelo che si stagli nitidamente contro il sole.

Immerso nella contemplazione della sua bellezza, rapito dal suono della sua voce celestiale che trasformava ogni idioma in una musica ineffabile, quando ero costretto a rispondere balbettavo qualche parola incoerente che doveva darle un'idea ben meschina della mia intelligenza. A volte, davanti a certe mie frasi che denotavano un profondo turbamento o un irrimediabile stupidità, vedevo sulle sue belle labbra accendersi il roseo bagliore di un sorriso amichevolmente ironico.

Non le avevo detto ancora niente del mio amore: al suo cospetto mi svanivano idee, forza, coraggio. Il cuore mi batteva come se volesse uscire dal petto e gettarsi sulle ginocchia della sua sovrana. Venti volte avevo deciso di parlare, ma mi tratteneva un'invincibile timidezza: bastava che la contessa assumesse un'aria leggermente fredda o riservata per cadere in preda a mortali angosce, simili a quelle del condannato che con la testa sul ceppo attende il balenio dell'ascia che gli taglierà il collo. Contrazioni nervose mi soffocavano, sudori gelidi mi inondavano il corpo. Arrossivo, impallidivo e uscivo senza aver detto niente, riuscendo a fatica a trovare la porta e vacillando come un uomo ebbro sui gradini della scala.

Quando ero fuori ritrovavo le mie facoltà e lanciavo al vento i più focosi ditirambi. Rivolgevo all'idolo assente mille dichiarazioni di irresistibile eloquenza. In quelle mute apostrofi; eguagliavo i grandi poeti dell’amore. Il Cantico dei Cantici di Salomone con il suo vertiginoso profumo d'oriente e il suo lirismo allucinato da hascisc, i sonetti del Petrarca con le loro sottigliezze platoniche e le eterne delicatezze, l'Intermezzo di Heine con la sua sensibilità nervosa e delirante, sono ben lontani da quelle inesauribili effusioni dell'anima in cui si consumava la mia vita.

Alla fine di ogni monologo mi sembrava che la contessa ormai vinta dovesse scendere dal cielo sul mio cuore, e più di una volta ho incrociato le braccia sul petto credendo di avvincerla a me.

Ero a tal punto in sua balia che passavo ore a mormorare Prascovia Labinska come un'amorosa litania, trovando un'indefinibile suggestione in quelle sillabe che a volte sgranavo lentamente come perle, a volte pronunciavo febbrilmente come il devoto esaltato dalla sua stessa preghiera.

Accadeva anche che tracciassi il nome adorato su finissime pergamene con ricercatezze calligrafiche da manoscritti medioevali, lumeggiature d'oro, fregi azzurri, arabeschi verdi. A quel lavoro minuziosamente appassionato e puerilmente perfetto consacravo le lunghe ore che mi separavano dalle visite alla contessa. Non riuscivo a leggere ne a occuparmi d'altro. Al di fuori di Prascovia non c'era più niente che mi interessasse e non aprivo neanche più le lettere che mi arrivavano dalla Francia. Mi sforzai a più riprese di uscire da quello stato; cercai di ricordarmi quali fossero per i giovani come me gli assiomi che sono alla base dell'arte del sedurre, gli stratagemmi dei Valmont del Café de Paris e dei don Giovanni del Jockey Club, ma al momento di metterli in pratica me ne mancava il coraggio e mi rammaricavo di non possedere, come il Julien Sorel di Stendhal, un pacchetto di lettere per la contessa da copiare in ordine progressivo. Mi contentavo di amare donandomi totalmente senza chiedere nulla in cambio, senza una sia pur remota speranza, giacché nei miei sogni più audaci osavo appena sfiorare con le labbra la punta delle rosee dita di Prascovia. Nel quindicesimo secolo, il giovane novizio con la fronte sui gradini dell'altare, il cavaliere inginocchiato nella sua rigida armatura non dovevano avere per la madonna un'adorazione più prona».

Il signor Cherbonneau aveva ascoltato Octave con profonda attenzione, dato che per lui il racconto del giovane non rappresentava soltanto una storia romantica. Durante una pausa del narratore disse come fra sé: «Sì, questo è un vero caso di amore-passione, una strana malattia che mi è capitato di diagnosticare una sola volta, a Chendernagor, in una giovane paria innamorata di un bramino. Ne morì, povera ragazza, ma era un essere selvatico, mentre lei, signor Octave, è un uomo civile, e noi la guariremo». Chiusa la parentesi, con la mano fece cenno al signor de Saville di continuare, e ripiegando la gamba sulla coscia come la zampa articolata di una cavalletta, si sostenne il mento con il ginocchio e rimase in quella posizione che per chiunque altro sarebbe stata impossibile, ma che per lui sembrava particolarmente comoda.

«Non voglio annoiarla con i particolari dei miei segreti tormenti», seguitò Octave, «e passo quindi a una scena conclusiva. Un giorno, non riuscendo più a controllare l'imperioso desiderio di vedere la contessa, anticipai l'ora della solita visita. Il tempo era afoso e minacciava temporale. Non trovai la signora Labinska in salotto. Si era seduta sotto un porticato sorretto da snelle colonne, aperto su una terrazza da cui si accedeva al giardino. Vi aveva fatto portare il pianoforte, un divano e delle sedie di vimini. C'erano inoltre delle giardiniere traboccanti di splendidi fiori - da nessun'altra parte sono freschi e profumati come a Firenze - che riempivano gli spazi tra le colonne e con la loro fragranza impregnavano le rare folate di brezza provenienti dall'Appennino. Attraverso le arcate si scorgevano le siepi di bosso e di tasso del giardino disseminato di svettanti cipressi centenari e di marmoree figure mitologiche in cui si rifletteva lo stile tormentato di Baccio Bandinelli e dell'Ammannati. Sullo sfondo, il profilo di Firenze dominato dalla cupola di Santa Maria del Fiore e la geometrica torre di Palazzo Vecchio.

La contessa era sola, semisdraiata sul divano di vimini. Mai mi era parsa così bella: il corpo mollemente abbandonato, illanguidito dal caldo, era immerso come quello di una ninfa marina nella bianca spuma di un'ampia vestaglia di mussola indiana che aveva un bordo increspato come la frangia argentea di un'onda. Una spilla di acciaio niellato del Khorassan chiudeva sul petto l'abito leggero come il tessuto che volteggia intorno alla Vittoria intenta ad allacciarsi il sandalo. Dalle maniche aperte a partire dal gomito uscivano come i pistilli dal calice di un fiore le braccia più pure dell'alabastro che serve agli scultori fiorentini per le loro copie di statue antiche. Un alto nastro nero, annodato in vita, spiccava su tutto quel bianco. Quel che di triste poteva esserci in un contrasto di colori tipico del lutto, era rischiarato dalla punta di una ciabattina circassa di pelle azzurra, arabescata di giallo, che spuntava dall'ultima piega della mussola.


I capelli biondi della contessa, le cui onde si gonfiavano come sollevate da un soffio, lasciavano scoperta la fronte pura, e le tempie trasparenti formavano come un'aureola dove la luce accendeva scintille d'oro.

Accanto a lei, su una sedia dove giacevano inutilizzati un paio di guanti scamosciati, palpitava al vento un gran cappello di paglia di riso ornato di lunghi nastri neri come quelli del vestito.

Al mio apparire Prascovia chiuse il libro che stava leggendo - le poesie di Mickiewicz - e mi fece con il capo un leggero cenno di benvenuto. Era sola, circostanza favorevole e rara. Mi sedetti di fronte a lei sulla poltrona che mi aveva additato. Per qualche minuto regnò tra noi uno di quei silenzi che, protraendosi, si fanno penosi. Non mi veniva in mente neanche il più banale argomento di conversazione, la testa mi si confondeva, ondate ardenti mi salivano dal cuore al viso e intanto il mio amore gridava: "Non perdere quest'occasione suprema".

Non so che cosa avrei fatto se la contessa, intuendo la causa del mio turbamento, non si fosse leggermente sollevata tendendo verso di me la sua bella mano come per chiudermi la bocca.

"Non dica una sola parola, Octave; lei mi ama, lo so, lo sento, lo credo. Non gliene voglio, perché l'amore è involontario. Altre donne, più severe, si mostrerebbero offese. Io invece la compiango perché non posso amarla, ed è triste per me essere la causa della sua infelicità. Mi dispiace che mi abbia incontrata e maledico il capriccio che mi ha fatto lasciare Venezia per Firenze. In un primo momento ho sperato che la mia ostinata freddezza finisse per stancarla e allontanarla da me, ma nulla sgomenta il vero amore, e io ne vedo tutti i segni nei suoi occhi. La mia amabilità non faccia nascere in lei nessuna illusione, non la induca a sognare. Non scambi la mia pietà per un incoraggiamento. Un angelo dallo scudo di diamante e dalla spada fiammeggiante mi protegge da ogni lusinga più della religione, più del dovere, più della virtù: quest'angelo è il mio amore. Io adoro il conte Labinski. Ho la fortuna di aver trovato la passione nel matrimonio".

A quella confessione così franca, così leale e così nobilmente pudica, un fiotto di lacrime mi sgorgò dagli occhi e sentii che dentro di me si spezzava la molla della vita.

Prascovia, commossa, si alzò e in un moto di pietà femminile, pieno di grazia, mi asciugò gli occhi con il suo fazzoletto di batista.

"Suvvia, non pianga", mi disse, "glielo proibisco. Cerchi di pensare ad altro, pensi magari che io sia partita per sempre, che sia morta. Mi dimentichi. Viaggi, lavori, faccia del bene, si lasci coinvolgere dalla vita, si consoli con un'arte o un amore..."

Feci un gesto di diniego.

"Crede di soffrire meno seguitando a vedermi?" riprese la contessa. "Venga pure, sarò sempre pronta ad accoglierla. Dio dice che si devono perdonare i propri nemici: perché riservare un trattamento peggiore a chi ci ama? La lontananza mi sembra però un rimedio più sicuro. Tra due anni potremo stringerci la mano senza pericolo... per lei", soggiunse cercando di sorridere.

L'indomani lasciai Firenze, ma né lo studio né i viaggi né il tempo hanno fatto diminuire la mia sofferenza. Sento che sto morendo: non me lo impedisca, dottore».

«Ha rivisto la contessa Prascovia Labinska?», chiese il dottore i cui occhi azzurri scintillavano stranamente.

«No», rispose Octave, «ma è a Parigi». E tese al dottor Cherbonneau un biglietto sul quale era stampato:

«La contessa Labinska riceve il giovedì».

(II - Continua)

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