AVATAR V
V
La fama del dottor Balthazar Cherbonneau, come medico e come taumaturgo, cominciava a diffondersi per tutta Parigi. Le sue bizzarrie, vere o simulate, ne avevano fatto un uomo alla moda. Ma invece di crearsi, come suol dirsi, una clientela, faceva di tutto per scoraggiare i malati chiudendo loro la porta in faccia o prescrivendo cose strane, regimi impossibili. Non accettava che casi disperati, lasciando ai colleghi, con altero disdegno, le comuni flussioni di petto, le banali enteriti, le borghesi febbri tifoidee. In casi estremi, però, otteneva guarigioni davvero inimmaginabili.
In piedi accanto al letto faceva gesti magici su una tazza d'acqua, e corpi già rigidi e freddi, pronti per la bara, dopo aver inghiottito qualche goccia di quella bevanda schiudendo le mascelle contratte dall'agonia, ritrovavano i colori della salute, si rimettevano a sedere, guardandosi attorno con occhio già assuefatto alle ombre della tomba.
Per questa ragione lo chiamavano il medico dei morti o il resuscitatore. Non sempre però acconsentiva a intervenire e spesso rifiutava somme enormi da parte di ricchi moribondi. Perché si decidesse a misurarsi con la distruzione doveva sentirsi commosso dal dolore di una madre che implorava la salvezza dell'unico figlio, dalla disperazione di un amante che chiedeva grazia per la sua adorata, o ritenesse che la vita in pericolo era utile alla poesia, alla scienza e al progresso del genere umano.
Fu così che salvò un bel bambino soffocato dalle dita di ferro della difterite, una deliziosa fanciulla tisica all'ultimo stadio, un poeta in preda al delirium tremens, un inventore colpito da una congestione cerebrale che avrebbe lasciato seppellire il segreto della sua scoperta sotto qualche palata di terra. In altri termini non ci si doveva opporre alla natura: certe morti avevano la loro ragione di essere e impedendole si rischiava di creare uno squilibrio nell'ordine universale.
È chiaro che il signor Cherbonneau era il dottore più paradossale del mondo e che dall'India si era portato dietro una buona dose di eccentricità. La sua fama di magnetizzatore era però ancor più grande della sua gloria di medico: davanti a un ristretto numero di eletti aveva tenuto alcune sedute di cui si dicevano meraviglie, a tal punto sovvertivano ogni nozione di possibile o di impossibile, e che superavano i prodigi di Cagliostro.
Il dottore abitava al pianterreno di un vecchio palazzetto della rue du Regard, in un appartamento con le stanze in fila come si facevano una volta. Le alte finestre davano su un giardino con grandi alberi dal tronco nero e un esile fogliame verde. Benché fosse estate, le grate metalliche degli enormi caloriferi emanavano grandi sbuffi di aria caldissima che mantenevano nelle vaste stanze una temperatura sui trentacinque, quaranta gradi. Il signor Cherbonneau, infatti abituato al clima rovente dell'India batteva i denti al nostro pallido sole, come quel viaggiatore che tornando dalle sorgenti del Nilo azzurro, in Africa centrale tremava di freddo al Cairo e usciva solo in una carrozza chiusa avvolto in una pelliccia di volpe azzurra siberiana e con uno scaldapiedi di latta pieno d'acqua bollente.
Gli unici mobili dell'appartamento erano dei divani bassi coperti di stoffe del Malabar su cui erano dipinti elefanti chimerici e uccelli favolosi, scaffali intagliati, colorati e dorati in maniera ingenuamente primitiva dagli indigeni di Ceylon, vasi giapponesi pieni di fiori esotici. Il pavimento di tutto l'appartamento era coperto da uno di quei tappeti funebri a fiorami bianchi e neri che tessono per penitenza i Thugg incarcerati e la cui trama sembra fatta con la canapa delle loro corde da strangolatori. Alcuni idoli indù di marmo o di bronzo, con i lunghi occhi a mandorla, il naso cerciato di anelli, le labbra carnose e sorridenti e collane di perle dotate di attributi misteriosi e singolari che arrivavano fino all'ombelico stavano a gambe incrociate su una delle mensole disposte negli angoli. Lungo le pareti erano appese delle miniature dipinte a tempera, opera di qualche pittore di Calcutta o di Lucknow, che rappresentavano i nove avatar già avvenuti, diVisnù, incarnatosi in un pesce, in una tartaruga, in un maiale, in un leone con la testa umana, in un nano bramino, in Rama, in eroe che combatte contro Cartasuciriargunen, il gigante dalle mille braccia, in Krishna, il bambino miracoloso in cui i sognatori vedono un Cristo indiano, in Budda, adoratore del grande Dio Mahadevi. Visnù era infine raffigurato anche addormentato in mezzo al mare latteo, sul serpente dalle cinque teste ricurve a baldacchino, in attesa di assumere nell'ultima incarnazione la forma dell'alato cavallo bianco, che facendo ricadere lo zoccolo sull'universo segnerà la fine del mondo.
Il signor Balthazar Cherbonneau se ne stava nell'ultima sala, ancor più riscaldata delle altre circondato da libri in sanscrito costituiti da sottili fogli di legno incisi con un punzone, forati e tenuti insieme da un cordone tanto da assomigliare più a persiane che a volumi, così come si intendono in Europa. Una macchina elettrica, con le bottiglie riempite di foglie d'oro e i dischi di vetro messi in moto da una manovella, s'innalzava inquietante e complicata in mezzo alla stanza accanto a una tinozza mesmerica dove erano immerse una stecca metallica e innumerevoli asticelle di ferro disposte a raggiera.
Il signor Cherbonneau era tutt'altro che un ciarlatano e non intendeva predisporre una messa in scena. Era però difficile penetrare in quel suo strano ritiro senza provare un po' la stessa impressione che in passato dovevano suscitare i laboratori degli alchimisti.
Il conte Olaf Labinski aveva sentito parlare dei miracoli del dottore, miracoli che avevano risvegliato la sua incredula curiosità. Le razze slave hanno una naturale inclinazione per il meraviglioso, che nemmeno l'educazione più raffinata riesce sempre a controllare, e d'altro canto testimoni degni di fede che avevano assistito alle sedute del dottore, raccontavano cose alle quali non si puo credere se non si sono viste, per quanta fiducia possa ispirare chi le narra. Andò quindi a far visita al taumaturgo.
Quando il conte Labinski entrò in casa del dottor Cherbonneau, ebbe la sensazione di essere avvolto da una specie di fiamma. Il sangue gli affluì alla testa e le vene delle tempie gli pulsarono. Il caldo eccessivo che regnava nell'appartamento lo soffocava, le lampade dove bruciavano oli aromatici, i larghi fiori di Giava che facevano oscillare gli enormi calici come turiboli gli davano alla testa con le loro emanazioni inebrianti e il profumo asfissiante.
Vacillando fece qualche passo verso il signor Cherbonneau che se ne stava accovacciato sul divano in una di quelle strane pose da fachiro o da sannyasi con le quali il principe Soltikoff ha così pittorescamente illustrato il suo viaggio in India. A veder sporgere gli angoli delle sue articolazioni sotto le pieghe dell'abito veniva fatto di pensare a un ragno umano raggomitolato in mezzo alla tela, immobile davanti alla preda.
Quando comparve il conte le sue pupille turchesi si illuminarono di bagliori fosforescenti al centro dell'orbita dorata dal bistro dell'epatite, ma subito si spensero come per una volontaria albugine. Tese la mano a Olaf, di cui capì il malessere, e con due o tre gesti lo avvolse in un'atmosfera primaverile creando per lui una fresca oasi in quel caldo infernale.
«Si sente meglio adesso? I suoi polmoni abituati ai venti del Baltico che giungono ancora freddi dopo essersi rotolati sulle nevi secolari del polo, dovevano ansimare come mantici a quell'aria ardente dove io, cotto e ricotto e quasi calcinato nelle fornaci del sole, batto i denti dal freddo». Il conte Olaf fece un gesto come per assicurare che non soffriva più dell'alta temperatura della casa.
«Bene, disse il dottore bonariamente, «lei ha sicuramente sentito parlare dei miei giochi di destrezza e vuole avere un saggio delle mie capacità. Oh! Io sono più abile di Comus, di Comte o di Bosco».
«La mia non è una futile curiosità, e ho più rispetto di quanto non pensi per un principe della scienza».
«Io non sono uno scienziato nell'accezione che si dà comunemente a tale parola. Al contrario, studiando certe cose che la scienza disdegna, sono arrivato a dominare forze occulte inutilizzate e produco effetti che sembrano straordinari, anche se sono naturali. A forza di farle la posta a volte ho trovato l'anima. Essa mi ha fatto confidenze di cui ho profittato e mi ha detto parole di cui ho fatto tesoro. Lo spirito è tutto, la materia esiste solo in apparenza. Forse l'universo è solo un sogno di Dio o un irradiazione del Verbo nell' immensità. Io stropiccio come mi pare quello straccio che è il corpo, trattengo la vita o ne affretto la fine, opero sui sensi, sopprimo lo spazio, neutralizzo il dolore senza bisogno di cloroformio, di etere o di qualsiasi altra droga anestetica. Armato della volontà questa elettricità di tipo intellettuale, vivifico o fulmino. Per i miei occhi non esiste più niente di opaco: il mio sguardo passa attraverso tutto, vedo distintamente i raggi del pensiero e allo stesso modo in cui si proiettano gli spettri solari su uno schermo facendoli passare attraverso il mio prisma invisibile posso costringerli a riflettersi sulla tela bianca del mio cervello. Ma tutto ciò è ben poca cosa in confronto ai prodigi compiuti da certi yogi indiani, pervenuti al più sublime grado di ascetismo. Noialtri europei siamo troppo leggeri, troppo distratti, troppo futili, troppo innamorati della nostra prigione d'argilla per aprirvi finestre abbastanza larghe sull'eternità e sull'infinito. Ciò nonostante ho ottenuto risultati piuttosto singolari come lei stesso potrà giudicare», disse il dottor Cherbonneau facendo scorrere sull'asta gli anelli di un pesante tendaggio che nascondeva una specie di alcova praticata in fondo alla sala.
Al chiarore di una fiamma che bruciando alcol oscillava su un tripode di bronzo, il conte Olaf vide uno spettacolo spaventoso che lo fece rabbrividire nonostante il suo coraggio: su un tavolo di marmo giaceva in una immobilità cadaverica il corpo di un giovane nudo fino alla vita. Dal torace, trafitto di frecce come quello di san Sebastiano, non colava una sola goccia di sangue. Pareva l'immagine a colori di un martire, al quale il pittore avesse dimenticato di tingere di rosso i labbri delle ferite.
«Questo strano medico» si disse Olaf, «è forse un adoratore di Siva e ha sacrificato una vittima al suo idolo».
«Oh! Non soffre affatto. Lo punga senza paura: non vedrà muoversi un solo muscolo della sua faccia». E intanto il dottore gli andava estraendo le frecce dal corpo, come si sfilano gli spilli da un puntaspilli.
Alcuni rapidi movimenti della mano liberarono il paziente dalla trama di effluvi che lo imprigionava ed egli si svegliò con un sorriso estatico sulle labbra come se emergesse da un bel sogno. Quando con un gesto il signor Balthazar Cherbonneau lo ebbe congedato, se ne andò passando da una porticina che si apriva nel rivestimento ligneo dell'alcova.
«Gli avrei potuto tagliare una gamba o un braccio senza che se ne accorgesse», disse il dottore che volendo sorridere increspò le rughe. «Non l'ho fatto perché non ho ancora il potere di creare, e la linfa dell'uomo, inferiore in questo alla lucertola, non è abbastanza potente da far ricrescere le membra amputate. Ma se non posso creare, in compenso posso ringiovanire». E tolse il velo che copriva una donna anziana addormentata grazie alla forza magnetica su una poltrona, non lontano dal tavolo di marmo nero. I suoi lineamenti, che dovevano essere stati belli, erano appassiti, e i segni devastanti del tempo erano visibili sul contorno smagrito delle braccia, delle spalle e del petto. Per qualche minuto il dottore la fissò intensamente con lo sguardo delle sue pupille azzurre: i contorni molli si rassodarono, la linea del seno ritrovò la sua purezza virginale, una carne bianca e morbida riempì la magrezza del collo, le guance si arrotondarono e una giovanile freschezza le rese vellutate come pesche, gli occhi si aprirono scintillando vivaci e sotto la maschera della vecchiaia, magicamente cancellata, riapparve la bella fanciulla da tempo svanita.
«Crede che la fontana della giovinezza abbia versato da qualche parte la sua acqua miracolosa?» chiese il dottore al conte stupefatto da quella trasformazione. «Io ci credo, perché l'uomo non inventa niente e ogni suo sogno è divinazione o reminiscenza. Ma lasciamo per un attimo questa forma riplasmata dalla mia volontà e consultiamo quella fanciulla che dorme tranquillamente nel suo angolino. La interroghi, e vedrà che la sa più lunga delle pizie e delle sibille. La può mandare in uno dei suoi sette castelli in Boemia, chiederle che cosa contenga il suo cassetto più segreto e lei glielo dirà. Alla sua anima infatti non occorre più di un secondo per fare il viaggio, cosa peraltro ben poco sorprendente dal momento che l'elettricità percorre settantamila leghe nello stesso lasso di tempo, e l'elettricità sta al pensiero come il fiacre al vagone ferroviari. Le dia la mano per mettersi in contatto con lei: non avrà bisogno di formulare la domanda perché la leggerà nella sua mente».
Con la voce atona di un'ombra la fanciulla rispose alla domanda inespressa del conte: «Nel cofanetto di cedro c'è una zolla di terra cosparsa di fine sabbia su cui si vede l'impronta di un piedino».
«Ha indovinato?» Il dottore fece la domanda con aria indifferente, sicuro dell'infallibilità della sonnambula.
Le guance del conte si coprirono di un violento rossore. Nei primi tempi del loro amore egli aveva effettivamente preso l impronta di un passo di Prascovia nel viale di un parco e la conservava come una reliquia in una scatola incrostata di madreperla e d'argento, preziosamente lavorata di cui portava al collo la microscopica chiave appesa a una catenella veneziana.
Vedendo l'imbarazzo del conte, il signor Balthazar Cherbonneau, che era un uomo di buone maniere, non insisté e lo guidò a un tavolo su cui era posata una coppa d'acqua limpida come il diamante.
«Sicuramente lei ha sentito parlare dello specchio magico dove Mefistofele fa vedere a Faust l'immagine di Elena. Pur non avendo uno zoccolo di cavallo nella mia calza di seta ne due penne di gallo sul cappello le posso offrire lo stesso innocente prodigio. Si chini sulla coppa e pensi intensamente alla persona che desidera far comparire: viva o morta, lontana o vicina, risponderà al suo appello dall'altro capo del mondo o dalla storia remota».
Il conte si chinò sulla coppa e sotto il suo sguardo l'acqua si fece subito torbida assumendo un colore opalino come se vi fosse stata versata una goccia d'essenza. Un alone iridato circondò i bordi del recipiente incorniciando il quadro che si andava delineando sotto il vapore biancastro.
La nebbia si dissipò e una giovane donna in vestaglia di pizzo, con gli occhi verde mare, i biondi capelli arricciati e le belle mani che vagavano distratte come bianche farfalle sull'avorio dei tasti, si disegnò come in uno specchio sull'acqua ridivenuta trasparente, così straordinariamente perfetta da far morire di disperazione ogni pittore.
Era Prascovia Labinska che inconsapevolmente ubbidiva all'appassionata evocazione del conte.
«E adesso passiamo a qualcosa di più singolare», disse il dottore prendendo la mano del conte e posandola su una delle asticciole di ferro della tinozza mesmerica. Appena ebbe toccato il metallo carico di un folgorante magnetismo, Olaf cadde a terra come fulminato.
Il dottore lo prese tra le braccia lo sollevò come una piuma, lo posò su un divano e disse al domestico che comparve sulla soglia: «Vada a chiamare il signor Octave de Saville».
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