Friday, April 27, 2007

Brucia, uomo, brucia!


Domenica - Lunedì - Martedì 25-26-27/02/2007



Mi arrischio a scendere in spiaggia verso le 11 di domenica (“domingo”), sul lungomare che si diparte dalla punta del faro verso nord-ovest. Sono abbordato da un tipo di nome Jay che conosce qualche parola di italiano e gestisce una barraca, cioè un chiosco a forma di tucul africano con i “servizi” di spiaggia, che consistono in: un mini ombrellone di fortuna, piantato liberamente sulla sabbia, una sedia in plastica e una bottiglia di birra infilata in una specie di contenitore termico per tenerla al fresco. C’è una grande confusione, quasi come sui lidi romagnoli in una domenica d’agosto. Non ho portato la crema protettiva perché non la ritenevo necessaria essendo il sole spesso coperto. Rimango circa 3 ore al riparo del sombrero. Ciò è comunque sufficiente per farmi diventare rosso come un gambero, sul davanti, sulle spalle e sulle parti del corpo fuoriuscenti dal piccolo cono d’ombra dell’”ombrellone”: il braccio e la spalla destra, parte del viso e i piedi.
Jay mi fa vedere sul telefonino le foto di una ragazza, Carla, che dovrebbe avere 28 anni e un figlioletto. Me la propone come amica. Accetto: non mi dispiacciono i bambini, soprattutto se hanno una bella mamma. La chiamerà con il cellulare per farmela conoscere. Rimango in attesa fingendo una certa indifferenza. Più tardi apprendo che Carla non sarebbe venuta poiché non aveva trovato da sistemare il bambino durante la sua assenza. L’incontro sfuma. Concordo con Jay per il giorno dopo.
Mi metto a leggere uno dei libri che mi ero portato da casa: Ma che cosa è questo amore?, il primo, simpaticissimo romanzo di Achille Campanile. La lettura, molto divertente, mi consente di isolarmi dalla musica fracassona e dai rumori della spiaggia.

Torno in albergo, solo e sconsolato come sempre. Dove sono le belle ragazze (as moças bonitas), dolci e sorridenti, che secondo una logora leggenda si offrirebbero ai turisti e agli Italiani in particolare, inseguendoli per strada, avvicinandoli sulla spiaggia, assalendoli fin nell’alloggio? In giro si vedono alcune coppie “strane”, seppur rare, con lei giovane, mulatta o creola e lui maturo o addirittura di mezza età, bianco, forse europeo; ma chissà come si sono incontrati e, soprattutto in che lingua e di che cosa parlano, come si capiscono? Probabilmente non è il loro problema: l’”amore” ha un linguaggio universale…
Il giorno dopo sono sofferente per le scottature sul corpo. Rimango in camera a leggere e accendo l’aria condizionata. Verso le 4 della tarde il sole è in procinto di scomparire dietro il profilo della città. Faccio un giro verso la barraca di Jay; lui non c’è. Un suo amico mi dice che non era venuto alla praia (apprenderò poi che era andato in ospedale per farsi medicare una gamba). Forse Carla era venuta, ma io non c’ero, e in ogni caso mancava il tramite per fare conoscenza.
La desolazione della mia anima ha toccato il fondo; è il crollo di ogni sogno e di ogni illusione. Mi metterei a piangere se servisse a qualcosa. Vorrei tornare a casa. Non sono fatto per il divertimento; sono incapace di provare piacere. Non c’è amore per me nel mondo.

La cameriera che fa le stanze suona il campanello; è una ragazza mulatta con il viso lungo, gli occhi pudichi e gentili. Non riesco a rendermi conto se è ben fatta; certamente è giovane e magra. Anche se non capisco le sue parole, di sicuro mi avrà chiesto se più tardi può ripassare per riordinare la camera. In questi giorni rimango a lungo nella mia stanza, dove sto al fresco e al riparo dal sole. L’avviso mediante il campanello si ripete per due giorni di seguito. Con il coraggio della disperazione decido di tentare il tutto per tutto, mettendo in atto una mia fantasia. Sarebbe bello che tra una camera e l’altra, o dopo il trabalho, lei venisse a farmi visita, nel mio confortevole nido. Al terzo giorno non attendo lo squillo. Metto il naso fuori dalla porta. Il carrello con i prodotti per la pulizia è in sosta poco più avanti. Mi faccio coraggio. Raggiungo con il cuore in gola la stanza dove la mia cameriera-squillo sta lavorando. Con qualche parola presa dal dizionario e un po’ in italiano, le dico:
- Sono solo in camera, ti va di farmi compagnia? - Vorresti essere mia amica? - Vuoi venire a jatar comigo esta noite (a cena con me questa sera)?
Mi guarda con occhi increduli e imbarazzati. Risponde che non può, non è consentito dalla direzione.
Ma allora mi hanno fregato! E’ tutta un’invenzione dei tour operator e delle agenzie di viaggio la storia che qui le ragazze sono più disponibili e pur di trovare sollievo alla loro indigenza, sono disposte a tutto, sessualmente parlando!

Esco; non so dove andare. Vorrei fare la stessa proposta (l’invito a cena) alle ragazze di passaggio, ma sono frenato dai miei soliti problemi: la paura, la timidezza, la malinconia irriducibile, cui si aggiungono le difficoltà della lingua.
Mi dirigo verso il faro. I marciapiedi che fiancheggiano il lungomare hanno una loro suggestiva bellezza: il fondo è costituito da massetti tondeggianti bianchi su cui risalta un semplice disegno scuro, come una figura di mosaico. Purtroppo in alcuni punti il fondo è sconnesso e non ci sono le classiche panchine, ma ci si può sedere sulla balaustra del muretto presente sul lato che guarda verso l’oceano.
Supero la spianata che sale al farol: qui si raccolgono i venditori locali, le creole corpulente, vestite con il loro bianco costume nazionale; ci sono gruppi di turisti che scattano foto, coppie e giovani a passeggio lungo il sentiero che circonda il faro. La vista sull’oceano e sulle rocce della baia è magnifica, ma io non ho nessuno con cui condividerla…Sono depresso. Quel luogo incantevole riflette la mia tristezza, la tristezza dei solitari cui “il cor…si spaura”, come capitava a Leopardi quando era in cima all’“ermo colle” dell’”Infinito”.
Sono seduto sul muretto che dà sulla spiaggia. Jay mi vede, mi invita a scendere. Pare che Carla non sia disponibile. Mi “offre” una ragazza ancora più giovane, Gabriela, che dovrebbe avere 20 anni e lavora come aiutante di una signora che prepara una farinata calda (“acarajé”?) da vendere sulla spiaggia. Mi sento un vecchio puttaniere… be’ forse lo sono…Ad ogni modo, meglio essere uno squallido puttaniere che un laido moralista come ce ne sono tanti al mio Paese... Le presentazioni sono particolarmente imbarazzanti, soprattutto per me. Jay fa un po’ da interprete. Il mio desiderio sarebbe farla salire in camera mia e poi, dopo l’amore, andare a cena insieme. Speriamo bene.

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Thursday, April 19, 2007

Arrivo nel Nuovo Mondo

Salvador (città)


Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Nome ufficiale: Salvador
Stato: Brasile
Coordinate: Latitudine: 12° 97′ SLongitudine: 38° 50′ W
Altitudine: 8 m s.l.m.
Popolazione:2.762.750 ab. (2006)

Salvador è la capitale dello stato di Bahia, appartenente alla regione nord orientale del Brasile.



Storia


Fondata nel 1549 a ridosso della "Bahia de todos os santos" (in italiano "baia di tutti i santi"), fu capitale del Brasile, allora colonia portoghese, fino al 1763, allorché la capitale fu trasferita a Rio de Janeiro.


Monumenti e luoghi di interesse:

L'ascensore che collega la parte bassa e la parte alta della città
Salvador merita di essere scrutata e gustata in molti suoi aspetti: nelle testimonianze architettoniche e artistiche della sua storia, ben conservate nella città alta e nel famoso quartiere Pelourinho, che raggruppa uno straordinario insieme di edifici coloniali del XVII e XVIII secolo (l'UNESCO li considera i meglio conservati delle due Americhe, tanto da aver inserito la città nell'elenco dei oro, la Chiesa Domenicana (XVII sec.) e la Chiesa di San Pietro (XVIII sec.).
Nelle vicinanze, a praça Anchieta, si trova la Chiesa di San Francesco con annesso monastero dall'affascinante cortile: è una delle chiese barocche più ricche al mondo ed ospita uno splendido San Pietro ligneo. Da visitare, nel centro della città, anche il Museo delle Arti Sacre: sicuramente uno dei preziosi dell'America Latina.
Nella piazza centrale troverete la casa de Jorge Amado, il museo-biblioteca dello scrittore brasiliano più amato e celebrato. Nei pressi potete anche visitare il piccolo Museo da Cidade, dove sono esposte interessanti opere del folclore afro-brasiliano e della religione Candomblé.
Da piazza Pelourinho si può raggiungere la Chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos, una chiesa realizzata dagli schiavi per gli schiavi, essendo nel passato a loro preclusa la frequentazione di altre chiese.
Di sicuro rilievo per importanza storica e costruttiva, sono la Chiesa Carmelitana e l'annesso convento, realizzati nel 1585. La città Alta è raggiungibile anche utilizzando L'Elevador Lacerda, un imponente ascensore realizzato nel 1930 seguendo i canoni estetico dell'Art Deco, che sale fino a 85 m.

La Cidade Baixa rappresenta il volto più moderno e commerciale di Salvador. Qui potrete immergervi nel Mercado Modelo, il mercato artigianale più famoso della città: uno spazio pittoresco dove, oltre a contrattare ed acquistare, si può assistere e divertirsi con spettacoli di musica e Capoeira. Poco più in là si incontra la Chiesa di Nossa Senhora da Conceiçao che ospita, 18 dicembre di ogni anno, una delle più importanti processioni religiose della città. Di fronte si notano l´edificio dell´Ammiragliato ed il forte di São Marcelo, che sembra galleggiare al centro dell´antico porto. Famose sono le spiagge di Salvador, soprattutto quelle della costa settentrionale. Barra, la spiaggia della città, è nota per il clima di accoglienza e allegria che i suoi caffè e bar sanno assicurare a tutte le ore. Procedendo verso nord, s'incontrano numerosi altri lidi, qua e la costeggiati da alberghi e piantagioni di cocco. A Pituba potete avvistare jangadas e frotte, le tipiche imbarcazioni a vela dei pescatori realizzate con tronchi di legno. Piata e Itapoan (in quest'ultima il tramonto è uno spettacolo da non perdere) vengono considerate le spiagge più belle di Salvador.
Fuori città, a 80 km di distanza, si giunge a una delle regioni più belle di Bahia: Praia do Forte. Qui, su un litorale incontaminato e lungo ben 12 km (ospita, fra l'altro, un importante centro di protezione delle tartarughe marine), la sabbia è bianca e punteggiata da un'infinità di palme da cocco.
All'interno della baia di Salvador, la Bahia de Todos os Santos, si può raggiungere l'Ilha de Itaparica, splendida isola dal paesaggio tipicamente tropicale, per trascorrere una giornata rilassante fra gustare bevande e fantasiose portate di mare.




Sabato - Domenica 24-25/02/2007

L’aeroporto di Salvador si trova a circa 40 km a nord della città, sulla costa. C’è molto verde in giro: cespugli, palme, piante tropicali; si ha quasi l’impressione di atterrare in una radura nel cuore dell’Africa equatoriale. E’ il pomeriggio di sabato: il sole semicoperto dalle nuvole crea uno strano effetto di luce filtrata, una tonalità livida come durante un’eclissi o nell’imminenza di un temporale. Quest’atmosfera ambigua e trattenuta è il naturale proseguimento di quell’angoscia che aveva funestato il mio volo e di cui subivo ancora i postumi, come una solenne ubriacatura di fiele.
Un inviato dell’agenzia turistica mi accoglie per accompagnarmi all’albergo. Pensavo che all’aeroporto ci sarebbero state frotte di turisti italiani con cui socializzare, ed invece i miei compagni di volo, comprese le tre amiche che mi avevano ignorato già prima della partenza, si disperdono verso le diverse destinazioni sparse nella metropoli.
Sono l’unico viaggiatore del mio volo che ha prenotato il soggiorno con la *** Tours e sono il solo ad essere raccolto per il trasferimento all’albergo.
L’Hotel M***, 3 o 4 stelle, è una buona struttura ricettiva che ha tutto quello che serve senza lussuose esagerazioni. Non ho ben capito a quale categoria appartenga: in certi punti dell’albergo sono riportate quattro stelle, mentre nel materiale pubblicitario del tour operator è definito hotel a tre stelle.
Sono solo nella mia camera matrimoniale di cui pago il supplemento (praticamente il doppio del prezzo a persona). Ma sono sciaguratamente isolato anche nell’unica occasione di incontro: alla mattina, durante la colazione, ci sono turisti europei attorno a me, ma gli italiani sembrano aver disertato questa città e, soprattutto, il mio stesso albergo.
Ho notato solo una coppia di nazionalità italiana; ha qualche difficoltà a procurarsi la moneta locale, il real: in albergo il cambio non è conveniente. Dei due, ho l’impressione che sia la donna ad avere la “quota maggioritaria” del rapporto: lui ha un’aria tranquilla, si lascia guidare. Ad ogni modo, oltre a qualche raro scambio di saluti, non c’è interesse reciproco ad approfondire la conoscenza.
Sono abbattuto e depresso. Il pomeriggio del mio arrivo e gran parte della domenica li trascorro in camera cercando di dormire: devo recuperare praticamente due notti insonni, il jet leg e soprattutto la prostrazione conseguente alle crisi d’ansia patite durante il volo e da cui non mi sono ancora ripreso del tutto.
L’Hotel M*** si trova nel quartiere Barra, poche centinaia di metri a sud del piccolo promontorio su cui si erge “O Farol da Barra”, il Faro che ospita al suo interno un museo della Marina; un luogo pittoresco e suggestivo adattissimo ad una passeggiata romantica…se solo avessi una donna con cui farla...
Al primo piano dell’albergo c’è il locale per la colazione e una palestra con alcune macchine, sempre deserta. Uscendo sulla terrazza, si gode una splendida veduta della baia, con il promontorio del faro a sx e sotto di me l’”ondina” – come la chiamano loro - cioè il lungomare, un viale lungo diversi chilometri che nella zona della Barra prende il nome di Avenida 7 Setembro. Per qualche mattina, sconsolato, per raccogliere le idee, rimango sul solarium ad osservare il via vai delle persone sotto di me. Ci sono ragazzi sportivi, ma anche molte ragazze, che fanno jogging e persone di ogni tipo, ma soprattutto giovani e di pelle mediamente scura (la tipologia più comune in questa città che mostra chiaramente le sue radici africane).
Il traffico è abbastanza intenso ma non caotico. Sulla terrazza dell’hotel c’è anche una piccola piscina rotonda, circondata da tavoli e lettini, ma non mi sembra molto frequentata.
Sono preso dal senso di tristezza che, dalle mie parti, ti viene a fine estate, quando le ferie sono al termine e gli stabilimenti balneari in disarmo. Qui si ha la percezione fisica della Quaresima che segna la fine ai bagordi, il languore tipico di quando si doveva tornare a scuola dopo le vacanze. In giro si vedono gruppi di operai intenti a smontare le strutture allestite per il Carnaval appena concluso.
Il tempo è variabile. Nei primissimi giorni dopo il mio arrivo brevi pioggerelle inumidiscono l’aria, alternandosi a fasi di sole con nuvole; quando ci si allontana dal viale costiero, molto ventilato, principalmente di sera, il clima è afoso, quasi uguale a quello di Ferrara, in estate. Forse è una fortuna che qui il sole sia spesso filtrato dalle nuvole, altrimenti sarebbe micidiale per la mia pelle bianco latte.

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Tuesday, April 10, 2007

Take-off


Venerdì 23/02/2007

Decollo previsto dalla Malpensa h. 8:45 del mattino; aereo della Livingston, una giovane compagnia che fa parte della flotta Lauda Air.
Per essere in aeroporto in anticipo di circa 2 ore rispetto alla partenza, sono costretto a mettermi sul treno per Milano il pomeriggio del 22 e a trascorrere la notte sul posto.
Nei giorni precedenti la mia “dipartita” da questo ingrato mondo (nel senso letterale del termine: si trattava proprio di lasciare il Vecchio Continente, con tutta l’opprimente zavorra delle sue contraddizioni e ipocrisie, per raggiungere un lussureggiante Nuovo Mondo, luogo di speranze, di sogni, di nuova linfa) avevo lavorato in ufficio fino all’ultimo. Ancora, io stesso non riuscivo ad entrare nella logica di questo viaggio che sentivo come una colpevole fuga dai miei doveri, dalle mie responsabilità, dalla rassicurante routine degli affetti; mi sosteneva solo la convinzione che dovevo tentare, a tutti i costi, di salvare il salvabile della mia vita, scuotermi dalla tranquilla disperazione e dall’amarezza del quotidiano, uscire dal cul de sac in cui da sempre si consumava la mia esistenza.
Non avevo la gioiosa eccitazione che normalmente precede una vacanza o un’opportunità di svago o divertimento. Provavo invece la lacerante angoscia dell’esiliato, del reietto, del proscritto, del colpevole messo al bando, dell’emigrante costretto a sradicarsi da un’ingrata, amara terra – che pure gli era cara – per cercare in un ambiente sconosciuto e lontano ciò che gli era negato a casa propria.
Mi sentivo come un condannato in procinto di salire al patibolo; mi vergognavo come un ladro, ma dovevo partire; non vedevo altra soluzione per il mio futuro: tutto ciò che si poteva tentare lo avevo sperimentato senza successo. Era una questione di vita o di morte.
Come un automa, quasi distaccato da me stesso, compivo i gesti, le azioni richiesti dal viaggio: la valigia, il bagaglio a mano, il treno per Milano, il terminal per la Malpensa, la notte da trascorrere in aeroporto, il check-in la mattina dopo, i nervosi rituali per l’imbarco.
Mi ero posizionato in corrispondenza del banco della Livingston; c’era ancora poca gente e i viaggiatori arrivavano a piccoli gruppi o a coppie, spingendo i carrelli dei bagagli o tirando le valige trolley.
Casualmente, una ragazza carina si mette in fila vicino a me. Non molto alta, ventenne, capelli castano chiaro; sembra sola. Attendiamo in silenzio l’arrivo degli addetti al controllo.
“E’ questa la fila giusta del volo per Salvador?”, le chiedo, per rompere il ghiaccio ma anche per avere conferma che quello fosse effettivamente il punto di raccolta per l’imbarco.
Mi risponde di sì, con gentilezza distaccata. La conversazione non decolla; rimaniamo vicini ma estranei. Dopo qualche minuto una simpatica signora ci rivolge la parola: ha chiaramente voglia di chiacchierare in attesa della partenza e ci ha scambiati per una coppia in vacanza. Si rivolge alla “mia” ragazza chiedendole dove siamo diretti; lei non chiarisce l’equivoco, e neppure io: non essendo direttamente interpellato, sorrido in silenzio. Apprendiamo che la cordiale signora si reca a Maceio, capitale dello stato di Alagoas, 650 km a nord di Salvador, dove l’aereo farà scalo prima di tornare in Italia. La nostra interlocutrice è nata proprio a Maceio, pur essendo a tutti gli effetti italiana, ed è un po’ emozionata al pensiero di ritornare nei luoghi della sua infanzia.
Un movimento nella fila che intanto si era andata formando annuncia l’apertura del banco. La conversazione si interrompe. La mia “partner” che comunque nel perdurare dell’equivoco non mi aveva mai rivolto la parola, ritorna silenziosa: il curioso incidente non l’aveva resa mia complice. Dopo qualche minuto mi accorgo che lei non era che l’avanguardia isolata di un terzetto di amiche: due ragazze apparentemente più giovani le si avvicinano e, finalmente riunite, parlottano e ridono fra loro.
Ci perdiamo di vista; io sono distratto dalle procedure del controllo passaporto e del bagaglio a mano. Mi avvio lungo il tunnel che conduce al portellone dell’aereo. Prendo posto nel sedile che mi è stato assegnato, sul lato più esterno della fila centrale. Dopo un po’ la “mia ragazza” mi passa di fianco per raggiungere un posto più indietro; è insieme alle sue amiche e non risponde al mio discreto sguardo di saluto. Anche a Milano la stessa ostilità, la medesima impietosa freddezza delle donne, come a Ferrara! Evidentemente è un male italiano, l’estraneità e l’alienazione figlie del progresso, il prodotto dell’emancipazione femminile all’italiana… Via, via, non resta altro che la fuga per salvarsi da questa disumanizzazione irreversibile!
Durante il volo, che dura 10 interminabili ore, la mia sofferenza raggiunge il culmine. Sono “incastrato” in un sedile sul lato corridoio. Alla mia sinistra sfrecciano le hostess, giovani e carine, ma senza tanti riguardi per le “cose” che sporgono dalla fila delle poltroncine. Un gomito, un piede, un ginocchio che fuoriescano dalla posizione rattrappita cui sono costretti, verrebbero tranquillamente travolti o falciati dal carrello delle vivande o dalle stesse assistenti di volo che “trafficano” a passi svelti e decisi l’angusto passaggio.
Mi sento come un pollo di batteria; tra l’altro, quando l’occupante del sedile davanti al mio abbassa lo schienale, il mio spazio di vita si riduce ulteriormente. Ma non sono i disagi fisici legati alla posizione che opprimono il mio cuore: lo sono molto di più quelli dell’anima. Atroci, lancinanti sensi di colpa che avevano molestato i giorni precedenti la partenza, si scatenano e mi straziano durante l’interminabile trasferimento aereo. Sono ostaggio dei miei cupi pensieri; la mia anima è come in balia di un attacco di panico. L’ansia, l’angoscia, la prostrazione mi fanno temere un infarto. Non provavo una sensazione così acuta e penosa dai tempi della mia disperata giovinezza, quei terribili anni della scuola superiore e dell’università. Chi può aiutarmi? Chiudo gli occhi: cerco disperatamente di rilassarmi con il training autogeno.

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