Tuesday, April 10, 2007

Take-off


Venerdì 23/02/2007

Decollo previsto dalla Malpensa h. 8:45 del mattino; aereo della Livingston, una giovane compagnia che fa parte della flotta Lauda Air.
Per essere in aeroporto in anticipo di circa 2 ore rispetto alla partenza, sono costretto a mettermi sul treno per Milano il pomeriggio del 22 e a trascorrere la notte sul posto.
Nei giorni precedenti la mia “dipartita” da questo ingrato mondo (nel senso letterale del termine: si trattava proprio di lasciare il Vecchio Continente, con tutta l’opprimente zavorra delle sue contraddizioni e ipocrisie, per raggiungere un lussureggiante Nuovo Mondo, luogo di speranze, di sogni, di nuova linfa) avevo lavorato in ufficio fino all’ultimo. Ancora, io stesso non riuscivo ad entrare nella logica di questo viaggio che sentivo come una colpevole fuga dai miei doveri, dalle mie responsabilità, dalla rassicurante routine degli affetti; mi sosteneva solo la convinzione che dovevo tentare, a tutti i costi, di salvare il salvabile della mia vita, scuotermi dalla tranquilla disperazione e dall’amarezza del quotidiano, uscire dal cul de sac in cui da sempre si consumava la mia esistenza.
Non avevo la gioiosa eccitazione che normalmente precede una vacanza o un’opportunità di svago o divertimento. Provavo invece la lacerante angoscia dell’esiliato, del reietto, del proscritto, del colpevole messo al bando, dell’emigrante costretto a sradicarsi da un’ingrata, amara terra – che pure gli era cara – per cercare in un ambiente sconosciuto e lontano ciò che gli era negato a casa propria.
Mi sentivo come un condannato in procinto di salire al patibolo; mi vergognavo come un ladro, ma dovevo partire; non vedevo altra soluzione per il mio futuro: tutto ciò che si poteva tentare lo avevo sperimentato senza successo. Era una questione di vita o di morte.
Come un automa, quasi distaccato da me stesso, compivo i gesti, le azioni richiesti dal viaggio: la valigia, il bagaglio a mano, il treno per Milano, il terminal per la Malpensa, la notte da trascorrere in aeroporto, il check-in la mattina dopo, i nervosi rituali per l’imbarco.
Mi ero posizionato in corrispondenza del banco della Livingston; c’era ancora poca gente e i viaggiatori arrivavano a piccoli gruppi o a coppie, spingendo i carrelli dei bagagli o tirando le valige trolley.
Casualmente, una ragazza carina si mette in fila vicino a me. Non molto alta, ventenne, capelli castano chiaro; sembra sola. Attendiamo in silenzio l’arrivo degli addetti al controllo.
“E’ questa la fila giusta del volo per Salvador?”, le chiedo, per rompere il ghiaccio ma anche per avere conferma che quello fosse effettivamente il punto di raccolta per l’imbarco.
Mi risponde di sì, con gentilezza distaccata. La conversazione non decolla; rimaniamo vicini ma estranei. Dopo qualche minuto una simpatica signora ci rivolge la parola: ha chiaramente voglia di chiacchierare in attesa della partenza e ci ha scambiati per una coppia in vacanza. Si rivolge alla “mia” ragazza chiedendole dove siamo diretti; lei non chiarisce l’equivoco, e neppure io: non essendo direttamente interpellato, sorrido in silenzio. Apprendiamo che la cordiale signora si reca a Maceio, capitale dello stato di Alagoas, 650 km a nord di Salvador, dove l’aereo farà scalo prima di tornare in Italia. La nostra interlocutrice è nata proprio a Maceio, pur essendo a tutti gli effetti italiana, ed è un po’ emozionata al pensiero di ritornare nei luoghi della sua infanzia.
Un movimento nella fila che intanto si era andata formando annuncia l’apertura del banco. La conversazione si interrompe. La mia “partner” che comunque nel perdurare dell’equivoco non mi aveva mai rivolto la parola, ritorna silenziosa: il curioso incidente non l’aveva resa mia complice. Dopo qualche minuto mi accorgo che lei non era che l’avanguardia isolata di un terzetto di amiche: due ragazze apparentemente più giovani le si avvicinano e, finalmente riunite, parlottano e ridono fra loro.
Ci perdiamo di vista; io sono distratto dalle procedure del controllo passaporto e del bagaglio a mano. Mi avvio lungo il tunnel che conduce al portellone dell’aereo. Prendo posto nel sedile che mi è stato assegnato, sul lato più esterno della fila centrale. Dopo un po’ la “mia ragazza” mi passa di fianco per raggiungere un posto più indietro; è insieme alle sue amiche e non risponde al mio discreto sguardo di saluto. Anche a Milano la stessa ostilità, la medesima impietosa freddezza delle donne, come a Ferrara! Evidentemente è un male italiano, l’estraneità e l’alienazione figlie del progresso, il prodotto dell’emancipazione femminile all’italiana… Via, via, non resta altro che la fuga per salvarsi da questa disumanizzazione irreversibile!
Durante il volo, che dura 10 interminabili ore, la mia sofferenza raggiunge il culmine. Sono “incastrato” in un sedile sul lato corridoio. Alla mia sinistra sfrecciano le hostess, giovani e carine, ma senza tanti riguardi per le “cose” che sporgono dalla fila delle poltroncine. Un gomito, un piede, un ginocchio che fuoriescano dalla posizione rattrappita cui sono costretti, verrebbero tranquillamente travolti o falciati dal carrello delle vivande o dalle stesse assistenti di volo che “trafficano” a passi svelti e decisi l’angusto passaggio.
Mi sento come un pollo di batteria; tra l’altro, quando l’occupante del sedile davanti al mio abbassa lo schienale, il mio spazio di vita si riduce ulteriormente. Ma non sono i disagi fisici legati alla posizione che opprimono il mio cuore: lo sono molto di più quelli dell’anima. Atroci, lancinanti sensi di colpa che avevano molestato i giorni precedenti la partenza, si scatenano e mi straziano durante l’interminabile trasferimento aereo. Sono ostaggio dei miei cupi pensieri; la mia anima è come in balia di un attacco di panico. L’ansia, l’angoscia, la prostrazione mi fanno temere un infarto. Non provavo una sensazione così acuta e penosa dai tempi della mia disperata giovinezza, quei terribili anni della scuola superiore e dell’università. Chi può aiutarmi? Chiudo gli occhi: cerco disperatamente di rilassarmi con il training autogeno.

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