Mercoledì 28/02/2007 (Quarta-feira)
Al mattino faccio colazione presto. Una giovane incaricata dell’albergo controlla che chi accede alla sala del breakfast sia ospite dell’hotel. E’ un tipo “africano”, pelle color cacao con riflessi ambra e i capelli raccolti in treccine parallele a partire dall’attaccatura. Gli occhiali da vista con la montatura nera le conferiscono un’aria professionale. Evidentemente, per “motivi di servizio”, veste sempre lo stesso completo color kaki, forse l’unico abito “all’europea” che possiede, ma i pantaloni attillati e le natiche sporgenti tradiscono le forme tipiche della donna africana. E’ graziosa ma distaccata. Tutta presa dal suo incarico ufficiale, non si scioglie mai in un sorriso, almeno nei miei riguardi. Io le sono indifferente o antipatico: mai uno sguardo in più dello stretto indispensabile, sempre tenuto a distanza, fin dall’inizio. Due giorni prima l’avevo incrociata alla fermata dell’autobus: forse non mi aveva visto; in ogni caso non aveva dato alcun segno di avermi riconosciuto.
Durante la colazione diluvia, ma ben presto il temporale finisce e inaspettatamente si apre una splendida giornata. Fra gli ospiti noto per la terza volta un tipo sui 40 anni, alto, snello, viso scavato, capelli alla nazarena, accenno di barba sale e pepe. Ha l’aria dell’uomo vissuto, dell’avventuriero e infatti, coerentemente con il suo aspetto da conquistador spagnolo, è sempre affiancato da una giovane e bella mulatta,che evidentemente dorme con lui visto che scendono assieme a far colazione.
Ma come ci si procura uma rapaiga, una ragazza, qui a Salvador?
Decido di farmi portare in taxi nel centro storico, il Pelourinho (“Pelo” per gli amici: destino di un nome…), dove si è conservata quasi intatta l’atmosfera coloniale dell’antica capitale del Brasile e la tipica architettura dei secoli XVII e XVIII.
Al taxista chiedo dove si può trovare uma mulher, una donna. Lui sorride, farfuglia qualcosa che non capisco ma rimane evasivo. Forse pensa che io voglia farmi una ragazza, ma ripeto che vorrei trovare una donna sui 30 anni piuttosto che una moça, al cui confronto mi sentirei un vecchio sozzone. Domando se nei paraggi ci siano dei locali dove si può fare amicizia: night o sale da ballo. Il mio interlocutore fa segno di sì ma poi non mi indica nulla. Non è un tipo molto loquace; la conversa, il dialogo langue e ben presto sono costretto al silenzio.
Mi guardo d’attorno. Stiamo attraversando una bella città, viva, ricca di verde, con ampi viali e scorci incantevoli. Ogni tanto, purtroppo, svettano dei palazzi-grattacielo con decine di piani, brutture architettoniche che raccolgono centinaia di appartamenti o uffici, edifici imponenti che sembrano la versione povera di New York, eretti senza controllo probabilmente perché non esiste un piano regolatore o non viene fatto rispettare.
“Sbarcato” nella storica Plaça da Sé, dopo pochi passi mi infilo nella cattedrale che sta su un lato della piazza: solo 2 R$ per l’entrata e la “manutenzione della chiesa”.
Appena dentro sono avvicinato da Claudio, un ragazzo munito del distintivo di guia (“guida”) che, non richiesto, mi fa da cicerone in un portoghese semplificato con qualche parola di italiano. Mi porta poi a visitare la sacrestia, dove ci sono mobili e arredi in legno pregiato. Qui mi propone un giro panoramico del Pelourinho (due orette per circa 100 o 150 R$, non comprendo bene i numeri) oppure una visita delle zone caratteristiche di Salvador, compresa l’Igreja do Bomfim, luogo di pellegrinaggio del XVIII sec. che sorge nei pressi della penisola omonima un po’ distanziata dalla città. Non sono molto interessato ad una guida del centro storico in una lingua che non comprendo. Per non deludere il mio volenteroso “operatore turistico” chiedo di lasciarmi il suo n. di telefono e verso quella che ritengo una mancia conclusiva per il “servizio”. Claudio è visibilmente deluso; in silenzio mi riaccompagna all’uscita, ma quando siamo nell’atrio-biglietteria mi chiede 20 R$ per la “guida” da me non richiesta e nemmeno concordata. Da nessuna parte vedo cartelli che indichino una guia a pagamento e tanto meno un’indicazione del prezzo. Pago senza fare storie: un real qui equivale a mezzo dollaro americano. Naturalmente Claudio non mi sconta la mancia.
Esco. Attraverso il Terreiro de Jesus ed ho di fronte il complesso religioso più celebre di Salvador, l’Igreja e Convento de São Francisco, con la caratteristica facciata in Barocco brasiliano del XVII sec. delimitata dai due campanili.
Dall’ingresso principale si accede al chiostro con il portico rettangolare sotto il quale si trovano gli azulejos, le famose raffigurazioni realizzate applicando formelle di maiolica dipinta alle pareti, come nel monastero di S. Chiara, a Napoli. Le composizioni utilizzano tutte le sfumature di un solo colore, il blu (azul-escuro, da cui il nome) e rappresentano scene bibliche, allegorie, insegnamenti morali con citazioni latine da Orazio: sono interessanti, ma nessuno me le spiega.
Li caratterizza, oltre alle solite ridondanze barocche, un disegno che non cerca, volutamente, alcuna verosimiglianza storica. Nella scena del Mar rosso, quando le acque si richiudono sopra le truppe del faraone lanciate all’inseguimento degli Ebrei, i soldati egiziani hanno elmi e armature uguali a quelli dei soldati portoghesi contemporanei degli artisti.
La vera e propria Chiesa di S. Francesco si trova a sinistra rispetto all’ingresso. L’interno è molto bello e ricco di stucchi dorati, ma tutte quella ridondanza di barocchismi mi stanca. Troppo oro, troppi orpelli, nessuna semplicità; ogni minimo spazio è ricoperto di fregi e decori, come un’intricatissima foresta di foglie gialle sfavillanti che ti disorientano: non ci si può concentrare su un particolare, percepire o seguire un dettaglio, avere una visione d’insieme meno soffocante.
Sono sempre solo e svogliato. Cerco di distrarmi passando in rassegna, una ad una, tutte le composizioni bluette del chiostro. Poi mi siedo su una panchina, leggiucchiando senza troppo interesse un foglietto illustrativo di S. Francisco che avevo trovato all’ingresso. Ogni tanto qualche gruppo di turisti si raccoglie al seguito di una guida che spiega in francese, in inglese, in portoghese. Un gruppo sparuto di sessagenari italiani arriva quando io ho già concluso la visita.
Ritorno sulla piazza. Scorro il fianco del complesso di São Francisco, indugiando davanti ad un punto caratteristico dove ci sono capannelli di europei intenti a scattare foto. Purtroppo, essendo isolato, sono facile preda dei venditori che infestano Il Pelourinho e ti propongono collanine, CD, oggetti tipici. Mi sottraggo ai loro attacchi, infastidito e disgustato. Sono come le mosche in estate: una la allontani e cento ti assediano. Non si riesce a stare un minuto fermi a guardare un monumento che sei tormentato da tutta questa gente bisognosa. Un venditore è particolarmente insistente, non riesco a togliermelo di torno neppure avviandomi. Con qualche parola di italiano mi offre collane, braccialetti o pendagli per “mia moglie”, la “mia ragazza” o la “mia donna”. Mi mostra un ciondolo che dovrebbe rappresentare “la figa brasiliana”: non capisco il nesso. Vorrebbe che comprassi almeno il CD con la musica del Carnevale di Bahia. Ripeto che non mi occorre niente, non voglio caricarmi di inutile zavorra per il viaggio di ritorno. Finalmente l’uomo desiste dal suo appiccicoso sistema per guadagnare qualche soldo. Mentre mi allontano fa qualche commento malizioso: “No donna, no musica, no ricordo di Salvador...”. Borbotta qualcosa di incomprensibile. Probabilmente si domanda che cosa ci sia venuto a fare in Brasile…e non ha torto! Conclude esclamando: “Duri, duri, questi Italiani!”. Ha ragione, dal suo punto di vista; bisognerebbe aiutare la gente povera, ma anch’io devo vivere e probabilmente, per ciò che riguarda l’amore, sono più disgraziato di lui. Ritorno sui miei passi.
Mi fermo ad un bar nei pressi di Plaça da Sé. Scelgo malauguratamente un tavolino a ridosso della cancellata che delimita l’area esterna del locale dalla strada. Subito un ragazzo si avvicina alla grata per chiedermi qualche reais. Il cameriere lo caccia via. Dopo un po’ il ragazzo ci riprova con le sue lamentose richieste. Gli do 2 R$, ma ne vorrebbe 5 per mangiare “um prato”, un piatto al bar. Il cameriere mi fa sedere ad un tavolino centrale, distanziato dalla cancellata.
Avrei in progetto di tornare a piedi: sarebbe una bella camminata di qualche chilometro, ma la prospettiva di essere tormentato lungo la via da venditori e questuanti mi induce a propendere per il taxi.
Mi alzo dal tavolino; faccio due passi in direzione di un monumento moderno con vista sul porto. Mi si avvicina un “menino”, un ragazzino sui 10 anni per darmi un nastro giallo con su scritto “Salvador de Bahia”. Mi dispiace che dei criaças, dei bambini, siano costretti a tormentare i turisti per racimolare qualche soldo. Sono desolato di doverlo deludere: volentieri gli avrei dato qualche cosa ma non ho moneta, né banconote di piccolo taglio. Qui in centro bisognerebbe girare con un sacchetto pieno di spiccioli. Quest’ultima disavventura mi convince a ritornare al più presto all’hotel prendendo un taxi.
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