AVATAR IX
Dopo che i valletti ebbero portato nella sua carrozza il vero conte Labinski, cacciato dal suo paradiso terrestre dal falso angelo custode in piedi sulla soglia, l'Octave trasformato tornò nel salottino bianco e oro ad aspettare che la contessa fosse pronta.
Appoggiato al marmo bianco del caminetto, il cui focolare era riempito di fiori, si vedeva riflesso nello specchio che si trovava proprio di fronte, sulla consolle dalle gambe ritorte e dorate.
Benché fosse al corrente della sua metamorfosi o, per meglio dire, della sua trasposizione, stentava a convincersi che quell'immagine così diversa dalla sua fosse il doppio del suo volto. Non riusciva perciò a distogliere lo sguardo da quel fantasma sconosciuto che peraltro era diventato lui. Si guardava e vedeva un altro. Involontariamente cercava se il conte Olaf non fosse accanto a lui con i gomiti appoggiati alla mensola del caminetto, proiettando la propria immagine nello specchio. Ma era proprio solo: il dottor Cherbonneau aveva fatto le cose coscienziosamente.
L'ingresso della cameriera pose fine al conflitto dei suoi pensieri. Al suo avvicinarsi non poté reprimere un soprassalto nervoso e tutto il sangue gli affluì al cuore quando la sentì dire:
«Adesso la signora contessa può ricevere il signore».
Octave-Labinski la seguì perché non conosceva la casa e non voleva che i suoi passi incerti lo tradissero.
La cameriera lo introdusse in un locale piuttosto ampio, una stanza da toeletta raffinatamente lussuosa. Una serie di armadi di legno prezioso, scolpiti da Knecht Linecht e Lienhart, con le ante divise da colonne ritorte intorno a cui si arrotolavano a spirale sottili ramoscelli di convolvolo con le foglie a forma di cuore e i fiori a campanula artisticamente intagliati, creavano una specie di rivestimento architettonico, un capriccioso porticato di rara eleganza, eseguito a regola d'arte. Negli armadi si susseguivano fittamente vestiti di velluto e di moire, capi di cachemire, mantelline, pizzi, pellicce di martora e zibellino, di volpe azzurra, oltre ai cappelli più vari: il corredo insomma di una bella donna.
Di fronte si ripeteva lo stesso motivo, ma al posto delle ante c'erano degli specchi montati come paraventi, di modo che si potesse giudicare l'effetto di una camicetta o di una pettinatura sia di faccia che di profilo o di dietro. Lungo la terza parete c'era una lunga toeletta rivestita di alabastro e onice con delle grandi vaschette giapponesi bordate d'argento come i rubinetti da cui usciva acqua calda o fredda. Essenze e profumi erano contenuti in flaconi di cristallo di Boemia che scintillavano come diamanti e rubini alla luce delle candele.
Al centro della stanza, su uno zoccolo di velluto verde, c'era un grande cofano di forma bizzarra, in acciaio di Korassan cesellato, niellato e arabescato in maniera così complicata da far sembrare semplici i motivi ornamentali della sala degli ambasciatori all'Alhambra. Sembrava che l'arte orientale avesse detto l'ultima parola in quel meraviglioso lavoro cui dovevano aver contribuito le dita fatate delle peri.
In quel cofano la contessa Labinska riponeva le sue parure, gioielli degni di una regina che metteva molto di rado, ritenendo, a giusto titolo, che non valessero quanto la parte che erano destinati a coprire.
Accanto alla finestra, le cui ampie tende ricadevano in pieghe profonde, davanti a una toeletta alla duchesse era seduta la contessa Labinska, raggiante di giovinezza e di bellezza. La illuminava la bianca luce di due candelieri a sei fiamme, mentre due angeli scolpiti dalla signorina de Faveau con quell'eleganza di linee slanciate e sottili che la caratterizza, inclinavano uno specchio verso di lei. Un finissimo burnus tunisino, a righe azzurre e bianche alternativamente opache e trasparenti, l'avvolgeva come una morbida nuvola. La leggera stoffa era scivolata sul serico tessuto delle spalle lasciando emergere un collo che avrebbe fatto sembrare grigio quello di un niveo cigno. Dalle pieghe uscivano i morbidi pizzi di una camicia da notte di batista, sciolta in vita. I capelli della contessa ricadevano liberi e opulenti come un manto imperiale sulle spalle. I boccoli d'oro liquido da cui Venere Afrodite spremeva perle inginocchiata nella sua conchiglia, emergendo come un fiore marino dall'azzurro del mare Ionio, erano sicuramente meno biondi, meno folti, meno pesanti!
Durante quella delicata operazione la contessa faceva danzare sulla punta del piede una babbuccia di velluto bianco ricamato d'oro, così piccola da far ingelosire le schiave di Khanu e le odalische del Pandischa. Di tanto in tanto, scostando le seriche pieghe del burnus, scopriva il bianco braccio e con grazia sbarazzina si aggiustava qualche ciocca fuori posto.
In quella posa di noncurante abbandono faceva pensare a quelle figurine greche che ornano i vasi antichi e di cui nessun artista è riuscito a riprodurre le linee pure e soavi, la fresca e leggera bellezza. Era mille volte più seducente che non nel giardino di villa Salviati a Firenze, e se Octave non fosse già stato pazzo d'amore lo sarebbe diventato, ma per fortuna non si può aggiungere niente all'infinito.
A quella vista, Octave-Labinski si sentì le gambe tremare e cedere come se si fosse trovato di fronte a un tremendo spettacolo. La bocca gli si seccò e l'angoscia lo strinse alla gola come la mano di un Thugg. Lingue di fuoco gli turbinarono intorno agli occhi. Era come se quella bellezza lo impietrisse.
Cercò di farsi coraggio, dicendosi che quel suo sciocco sgomento da innamorato respinto sarebbe stato perfettamente ridicolo da parte di un marito per quanto ancora invaghito dalla moglie, e si avvicinò con fare deciso alla contessa.
Ah! Sei tu, Olaf! Come torni tardi stasera!», disse la contessa senza voltarsi mentre le cameriere le intrecciavano i lunghi capelli. E intanto gli tendeva una delle sue belle mani liberandola dalle pieghe del burnus.
Octave-Labinski afferrò quella mano più dolce e più fresca di un fiore, se la portò alle labbra e vi impresse un lungo, un ardente bacio, con tutta l'anima concentrata su quel breve spazio.
Ignoriamo quale delicata sensibilità, quale istinto di divino pudore, quale irrazionale intuito mise in guardia la contessa, ma una nube rosea le coprì improvvisamente il viso, il collo, le braccia, che si fecero del colore della neve vergine in alta montagna, quando la sorprende il primo bacio del sole. Trasalì e liberò lentamente la mano, combattuta tra la collera e il pudore, come se le labbra di Octave l'avessero marchiata di un ferro rovente. Ma si riprese presto e sorrise della sua fanciullaggine.
«Oh, no! Non sempre. Io lo sento quando pensi a me anche da lontano. Stasera per esempio ero sola seduta al pianoforte e suonavo un pezzo di Weber per cullare con la musica la mia malinconia: ho sentito il tuo spirito volteggiare intorno a me nel turbine sonoro delle note. Poi è volato via, non so dove, sull'ultimo accordo, e non è più tornato. Non mentirmi: sono sicura di quello che dico».
Benché fosse umanamente impossibile intuire il misterioso trasferimento di anime operato dal dottor Cherbonneau mediante la formula del sannyasi Brahma-Logum, Prascovia non riconosceva negli occhi di Octave-Labinski la familiare espressione degli occhi di Olaf, quella di un amore puro, quieto, costante, eterno come l'amore degli angeli: una passione terrestre incendiava quello sguardo turbandola e facendola arrossire. Non si rendeva conto di che cosa fosse accaduto ma qualcosa era accaduto. Mille strane supposizioni le passarono per la mente: per Olaf non era più che una donna volgare, desiderata per la sua bellezza come una cortigiana? Una qualche dissonanza a lei ignota aveva spezzato il sublime accordo delle loro anime? Olaf amava un'altra? Parigi aveva corrotto quel casto cuore?
Passò rapidamente in rassegna tutte queste ipotesi, ma senza risultati soddisfacenti. Si disse che era pazza, pur sentendo in cuor suo di aver ragione. Un segreto terrore la stava invadendo come se fosse stata in presenza di un pericolo sconosciuto, ma intuito da quella seconda vista dell'anima, alla quale si ha sempre il torto di disubbidire.
Non cercheremo di descrivere la delusione di Octave quando si trovò di fronte a una porta chiusa e sentì stridere il chiavistello. Crollava la sua ultima speranza. Ma come! Era ricorso a mezzi terribili pazzeschi, si era messo in mano a un mago, forse a un demone, rischiando la vita in questo mondo e l'anima nell'altro per conquistare una donna che gli sfuggiva, benché grazie alle stregonerie indiane se la ritrovasse indifesa tra le mani. Respinto come amante, lo era altresì come marito: l'invincibile purezza di Prascovia sventava le più infernali macchinazioni. Sulla soglia della camera gli era apparsa come un bianco angelo di Swedenborg che fulmina lo spirito maligno.
Non potendo rimanere tutta la notte in quella ridicola situazione, cercò quindi l'appartamento del conte e in fondo a una serie di stanze ne trovò una con un letto dalle colonne d'ebano e arazzi arabescati alle finestre, decorati di stemmi. Al riflesso di una lampada rilucevano vagamente nell'ombra panoplie di armi orientali, corazze e elmi da cavaliere. Sulle pareti luccicava un rivestimento di cuoio di Boemia con rilievi d'oro. Quell'arredo di stile feudale, che non sarebbe stato fuori posto nel salone di un castello gotico, era completato da tre o quattro poltrone scolpite e da una cassapanca istoriata. Per il conte non si trattava di una frivola imitazione in ossequio alla moda, ma di un devoto ricordo. La camera era la copia esatta di quella che era stata la sua in casa della madre, ed egli aveva sempre rifiutato di cambiarne lo stile, nonostante i sarcasmi che quella scenografia da gran finale aveva spesso ispirato.
Sfinito dalla stanchezza e dalle emozioni, Octave-Labinski si buttò sul letto e si addormentò maledicendo il dottor Balthazar Cherbonneau.
(IX - Continua)
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