Wednesday, June 06, 2007

Il Giardino di Allah

Giovedì 01/03/2007 (Quinta-feira)

A colazione rivedo il tipo avventuriero con la sua ragazza di colore. Lui l’avevo incrociato il giorno prima, da solo, in ascensore. Dal saluto avevo capito che era italiano; abbiamo scambiato due parole nel breve tempo della discesa: è originario di Parma ma vive in Abruzzo.
In ascensore si incontrano sempre persone nuove: sono gli unici, frettolosi contatti che intrattengo con i turisti dell’albergo. Questa mattina mi trovo a tu per tu con una bella ragazza che ha l’aria di non voler socializzare. E’ di carnagione bianca, leggermente olivastra. Chiedo se sta scendendo: non mi risponde. Evita lo sguardo con l’abilità e la consumata esperienza di una donna ferrarese. Usciamo contemporaneamente dall’hotel, ma non in compagnia. Io ho l’intenzione di raggiungere in taxi la praia Pituba. Prendo accordi con un conducente in sosta di fronte all’albergo. Anche la mia ritrosa compagna di ascensore chiede un’informazione allo stesso taxista. Salgo da solo sulla vettura. Chiedo all’uomo se quella ragazza è brasiliana; sembra di si. Il conducente, un po’ per interesse, un po’ per farmi una cortesia, mi sconsiglia di fermarmi a Pituba, che sarebbe la spiaggia sporca di un quartiere degradato o malfamato. Mi consiglia la praia Jaguaribe che si trova un po’ oltre. Avuto l’Ok si avvia lungo il viale interminabile che costeggia l’Oceano in direzione est. Facciamo molta strada. La costa è quella tipica di Salvador: rocciosa, con scogli bassi e livellati interrotti da spiaggette e insenature sabbiose. C’è poca gente al mare nei giorni di lavoro.


Dal Farol da Barra tocchiamo i quartieri e relative spiagge di Ondina, Rio Vermelho, Amaralina, Pituba – che effettivamente ha un’aria dimessa e appare deserta, né più né meno delle altre.



Quando siamo al Jardim de Alá, un luogo molto attraente che presenta gruppi di palme altissime, come un’isola tropicale attaccata alla città, decido di fermarmi. Siamo poco oltre la metà del tragitto; il tassametro segna una ventina di reais. Se vado oltre rischio di non avere abbastanza soldi per il ritorno. Non porto mai molto denaro con me quando vado in spiaggia: è l’unico modo per non rischiare di essere derubato ed è anche un limite naturale alle spese voluttuarie, quelle per gli oggetti che vengono continuamente proposti ai turisti in riva al mare.
Un “vecchietto” di carnagione scura, capelli rasati, baffetti neri e viso cordiale mi accoglie quando ancora non sono sceso dal taxi guidandomi verso la barraca con la stessa premura che avrebbe un portiere dello Sheraton nei riguardi di un facoltoso sceicco.
Il sombrero è gratis: si paga solo la consumazione. Prendo una cerveja che viene servita nel solito portabottiglie termico. Il problema, che avevo già notato nei giorni precedenti è che una quantità di mosche si mette pericolosamente a camminare sull’orlo della bottiglia e del bicchiere; il che, oltre che poco igienico, è anche disgustoso: è facile che l’insetto cada dentro la birra lasciata nel copo o, peggio ancora, entro la bottiglia. Si può ovviare “tappando” con il bicchiere rovesciato la garrafa, ma si ottiene una specie di fungo di vetro assai instabile.
Trascorro noiosamente la mattinata immerso nella lettura e nei miei tristi pensieri.
Prevedibile via vai di “ambulanti” da spiaggia, sebbene più contenuto perché i potenziali “clienti” sono pochi. Oltre ai soliti venditori di bigiotteria e articoli di vario genere, passa anche un tipo con un cartello da cui si apprende che pratica il massaggio cinese; una signora anziana e corpulenta si fa avanti per leggermi la mano e predire il futuro. All’ora di pranzo girano soprattutto quelli che propongono cose da mangiare tenute in contenitori di fortuna. Alcuni sono provvisti di pentolino metallico contenente della carbonella: a richiesta improvvisano un piccolo barbecue sulla sabbia per cuocere “alla griglia” spiedini e abbrustolire altri alimenti non meglio identificati.
Non mi lascio tentare. In questi giorni di depressione, non ho fame, per fortuna, e neanche sete. Per venire incontro al “vecchietto” simpatico che mi aveva accolto all’arrivo e che ogni tanto mi passa di fianco chiedendomi: “Tudo bom?”, mi faccio portare una batata frita. Gli lascio il resto di 1 R$. Mi ringrazia con sincera deferenza:”Obrigado!”.
La giornata al mare trascorre così, lenta e pigra. Delle favolose ragazze che farebbero a gara per offrirsi ai turisti maschi, assalendoli fin sulla spiaggia, neppure l’ombra.
Verso le 4 del pomeriggio la sabbia sollevata dal vento mi ha completamente appannato gli occhiali. Il “garzone” del bar ha l’aria di sbaraccare. Per loro la giornata è finita, quando per me, alla stessa ora, sui nostri lidi si farebbe più rilassante essendo il sole non più così fastidioso. Mi informo per tornare indietro in bus e per chiamare in Italia, dove sono circa le 8 di sera. L’inserviente della barraca fa di tutto per aiutarmi. Sta smontando dal lavoro. Dopo un po’ di attesa mi accompagna ad un vicino centro commerciale dove ci sarebbe la possibilità di usare il telefono se non ci fosse una coppia di ragazzi impegnata in una conversazione interminabile. Il mio amico, che intanto si è presentato - si chiama Marcel – mi lascia il “biglietto da visita” invitandomi ad andarlo a trovare tutti i giorni al “bagno” dove presta servizio: verrei volentieri, ma è troppo lontano dal mio alloggio. Marcel ha 46 anni (è più giovane di me!..); vive con la moglie e il figlio piccolo a 40‘ di strada a piedi dalla barraca del Jardim.
Attende pazientemente che io faccia la telefonata, ma quando finalmente vengo in possesso dell’apparecchio, non riesco a combinare nulla. La maledetta “cartão intenacional” che avevo acquistato il giorno prima in un’edicola e tentato di utilizzare mentre Gabriela e Jean parlavano, ha un uso complicatissimo e sembra morta e sepolta. Alla fine desisto.


Il mio amigo mi porta alla fermata dell’autobus. Normalmente lui torna a casa a piedi (circa 4 km!), ma per essermi d’aiuto sale con me sul bus. La tariffa è 2 R$ a testa. Vedendomi in difficoltà per trovare la modesta somma, paga anche la mia corsa. Io gli allungo 1$; è un po’ perplesso: non sa che qui un dollaro americano equivale a 2 reais. Quando siamo prossimi alla sua fermata, prima di scendere avverte rumorosamente sia il bigliettaio che il guidatore, di lasciarmi il più vicino possibile all’albergo. Disarmante la disponibilità di questi brasiliani: semplici, poveri ma pieni di umanità.
Rientro. Cerco di farmi spiegare dal portiere della reception come si utilizza quel cavolo di cartão intenacional, ma non riesco. E neppure loro: la carta risulta bloccata. Forse i miei vari tentativi di attivare il servizio hanno fatto scattare un meccanismo di protezione del codice, così la preziosa cartão mi dà l’ennesima fregatura. Ma l’invenzione di Meucci (Bell per gli americani) è arrivata in Brasile oppure no? Chiamo infine dalla camera.
Esco verso le 20:00. Vado a mangiare in un ristorante-pizzeria dal nome italiano. Qui le pizze sono tutt’altro che un cibo a buon mercato: costano come, se non di più dei secondi di carne, tipo il filet.

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